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Interessante sì, bello no: ciao Venezia

Ha vinto Kim Ki-Duk con “Pietà” (Corea del Sud), e ha ringraziato cantando una canzone coreana misteriosa, ma a suo modo affascinante. Premi importanti per Paul Thomas Anderson, “The Master”: Leone d’argento al regista, Coppa Volpi a Philip Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix per la loro fantastica interpretazione. Premi minori per il cinema italiano: Daniele Ciprì (“È stato il figlio”) si vede assegnare un’Osella per il miglior contributo tecnico, la direzione della fotografia nel proprio film (giustamente dedicato a Marco Onorato, grande operatore recentemente scomparso); mentre Fabrizio Falco, protagonista (è il “figlio” del titolo) in Ciprì e comprimario in “Bella addormentata”, si aggiudica il premio Mastroianni come miglior attore “emergente”, per entrambi i film. L’attrice israeliana Hadas Yaron vince la Coppa Volpi per “Fill the Void”. Olivier Assayas vince per la miglior sceneggiatura con l’autobiografico Apres mai. Questi i verdetti principali di Venezia 69, una Mostra sulla quale ora ci porremo alcune domande.

È stata una Mostra bella?
No. Francamente no.

È stata una Mostra interessante?
Sì. Qualche scoperta c’è stata e alcuni film italiani erano notevoli. Al di là dei tre in concorso, vorremmo ricordare almeno “Bellas mariposas” di Salvatore Mereu, “Il gemello” di Vincenzo Marra, “L’intervallo” di Leonardo Di Costanzo, “Terramatta” di Costanza Quatriglio, “La nave dolce” di Daniele Vicari. Alcuni documentari, alcuni di finzione, alcuni a cavallo – e nel cinema italiano contemporaneo la commistione fra documentario e finzione è una via frequentata ed estremamente creativa.

È stata una Mostra ben organizzata?
Sì. Ci si sta avviando a una razionalizzazione della zona-Mostra, fra Palazzo del cinema e vecchio Casinò, che renderà l’area frequentabile e sopportabile nel giro di 2-3 anni. Sembra ridicolo, ma è già un enorme risultato. La gestione degli ultimi anni aveva portato a un risultato paradossale: una Mostra elefantiaca, con troppi film, stipati in troppo poche sale. Il passaggio da Marco Muller ad Alberto Barbera ha prodotto se non altro un calendario più logico, con un numero di film proporzionale alle strutture esistenti. Il famoso “buco dell’amianto” è sempre lì, ma meno grande dell’anno scorso: pian piano verrà coperto e l’area agibile davanti al Casinò sarà finalmente gradevole, magari con la costruzione di un nuovo albergo (è il progetto di cui parla il Comune di Venezia) anziché di un nuovo palazzo del cinema. L’amianto resterà sepolto, e non farà danni immediati: certo sarebbe interessante essere qui fra 3-4.000 anni, quando una civiltà aliena scoprirà il Lido e analizzerà i reperti archeologici, scoprendo che una bizzarra popolazione di esseri a due zampe e con gli occhi a palla (per le troppe ore passate al buio davanti a una luce artificiale, che pare proiettasse immagini in movimento) frequentava paludi altamente tossiche che hanno lentamente portato alla sua estinzione.

È stato un verdetto giusto?
Bah! Kim Ki-Duk è un cineasta che fa troppi film, che esagera in trovate provocatorie e truculente e che farebbe bene a darsi una calmata. Paul Thomas Anderson è un grande regista che avrebbe bisogno di incontrare grandi produttori: ogni suo film, ad eccezione forse del “Petroliere” che ci sembra l’unico suo capolavoro indiscusso, ha sequenze in eccesso, discontinuità narrative e finali discutibili. Nella vecchia Hollywood questi registi venivano molto semplicemente presi a bastonate dai produttori, che poi affidavano i loro film a bravissimi montatori che davano loro una forma accettabile. Certo, c’erano eccezioni: ogni tanto qualche genio (Orson Welles in primis) veniva massacrato. Ma perfino a John Ford è capitato di vedersi rimontare un film da un produttore (“Sfida infernale”, da Darryl Zanuck) che ha fatto un lavoro migliore del suo. Anderson, che non è né Welles né Ford (quintali di pagnotte, caro Paul Thomas), ha la sfortuna di vivere in un’epoca in cui pochi produttori capiscono di cinema. Olivier Assayas ha fatto un film bellissimo che vellica il cuore e i ricordi di chiunque era giovane, o anche adolescente, negli anni ’70. Daniele Ciprì è un talento sicuro, lo sappiamo dai tempi di Cinico Tv, però dopo questo verdetto Marco Bellocchio potrebbe anche togliergli il saluto: l’ha stimolato a girare “È stato il figlio” mentre Daniele gli faceva da operatore in “Vincere”, gli ha prestato la montatrice (la sempre straordinaria Francesca Calvelli), lo scenografo (Marco Dentici), vari membri della troupe e diversi attori (Toni Servillo, Fabrizio Falco e Pier Giorgio Bellocchio compaiono anche in “Bella addormentata”). e poi che ti fa l’allievo: viene premiato!, mentre il maestro torna a casa con una microscopica consolazione (il premio Mastroianni “diviso” di Fabrizio Falco). C’è gente che ha ucciso per molto meno. Olivier Assayas meritava molto di più, ma speriamo sia ricompensato dal pubblico: andate assolutamente a vedere “Apres mai”, voi vecchi sessantottini, e sarete felici. Comunque l’importante è che non abbia vinto Harmony Korine, un altro regista su cui abbiamo messo una croce – e ci sembra incredibile come i direttori di festival, anche vecchi amici per i quali abbiamo grande stima come Barbera, continuino a cascarci.

Fonte: www.globalist.it 

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