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Più pil-o per tutti

“Un tipo al parco mi ha chiesto un limone. E io gli ho detto: ‘Simpaticissimo, cosa te ne fai di un limone?’ E lui: ‘Sai, devo farmi una pera…’ E io: ‘Ma cosa sei un mago?'” (Antonio Albanese)

PIÚ PIL-O PER TUTTI

Nella società italiana c’è una chiara propensione, peraltro dichiarata anche da molti politici, a ritenere che la Cultura non paghi, che non renda in termini di Pil. E, invece, in altri Paesi hanno forse frainteso la frase di quel grandioso attore che è Antonio Albanese che deve essere suonata: “Cultura? Più PIL per tutti … “.

Sono noti i dati che riguardano gli investimenti nella cultura di molti Paesi, enormemente più ampi rispetto all’Italia, e si soprassiede dall’approccio economicistico/matematico ma se due più due fa quattro … Un solo dato: in Italia si spende 1,1 per cento delle risorse pubbliche a fronte del 2,2 per cento della media Ue considerata a 27 Paesi. Tralasciando Estonia e Lettonia, Paesi clamorosamente lontani (rispettivamente 5 per cento e 4.2 per cento), la Germania 1.8, la Francia 2.5, la Spagna 3.3 … La Grecia, molto più toccata dalla crisi economica e più debole come sistema Paese, 1.2. Per capire quanto siamo indietro converrebbe analizzare i dati riferiti alla Scuola. Si può farlo con Il Sole 24 Ore.

Forse alla base di queste differenze di approccio tra Paesi c’è un malinteso nato proprio dal mondo della cultura. È da decenni accettata l’idea attribuita a Carl Marx (dai critici ma anche da studiosi che si ritengono marxisti) che l’arte e la cultura siano sovrastrutture, legate alla struttura, ovvero all’economia che la vita sociale esprime. Pertanto, se c’è crisi economica la prima cosa da farsi e che si può fare è tagliare i fondi destinati al cosiddetto sociale e alla cultura. Potrebbe essere utile andare a verificare se Marx abbia creato i presupposti teorici per giungere alla conclusione che tra economia e arte-cultura ci sia un rapporto meccanico. In realtà in ‘L’ideologia tedesca’ scrisse: “Per l’arte, è noto che determinati suoi periodi di fioritura non stanno assolutamente in rapporto con lo sviluppo generale della società, né quindi con la base materiale, con l’ossatura per così dire della sua organizzazione”. È ammissibile, quindi, almeno come approccio e salvo ulteriori approfondimenti, sostenere che sia stata fuorviata la conclusione cui sono giunti gli studiosi di Marx e del marxismo in genere, a esclusione di alcuni. A volte c’è il sospetto che si attribuiscano a Marx, come ad altri studiosi, affermazioni mai pronunciate/scritte e conclusioni cui non giunse. Sono favole metropolitane. Il tema non è nuovo e in sintesi accade: “Io voglio scrivere su Marx, che devo fare? Leggere Il capitale, o Salario, prezzo e profitto, richiede troppo tempo o risulterà sicuramente difficile. Meglio prendere un libro scritto da un altro che mi dirà cosa pensò e scrisse Marx”.

Non c’è nulla da obiettare sul fatto che si scriva sugli studiosi ma ogni tanto le fonti andrebbero consultate, non fosse altro che per stare in un solo argomento, senza necessariamente perdere la vista indulgendo dieci anni sopra quelle pagine, che effettivamente facili non sono. Il web, d’altronde, può essere utile anche in tal senso. D’altronde, sempre in merito al marxismo-marxisti, il suffisso ismo-ismi talvolta è usato per la formazione di voci dotte di valore astratto, solitamente di formazione moderna, che indicano esplicitamente fenomeni negativi. Si pensi al senso comune delle parole che sintetizzano certi movimenti, cui gli antagonisti danno appunto una valenza negativa: islamismo ma anche comunismo, quasi ponendolo sullo stesso piano del termine ‘fascismo’ e richiamando l’altra parola che su un ‘ismo’ si incentra, risultando estremamente esplicita: fanatismo. Per non dire di qualche neologismo nato da nome proprio, tipo ‘rambismo’, che è stato preceduto da ‘amletismo’.

Per fortuna c’è anche la valenza positiva con cui si integra l’idea che l’arte e la cultura siano cosa buona e giusta. Si pensi a romanticismo e impressionismo.

Non è richiesto, dunque, l’eroismo (un ismo che rimanda a un atteggiamento e al carattere), per approfondire quel tanto che basti a capire che c’è differenza tra marxismo e marxiano. La seconda formulazione dovrebbe piacere di più poiché lascia emergere meglio l’approccio di Marx rispetto all’approfondimento di alcune categorie. Si pensi a quella del valore nota come Teoria marxiana del valore. Basta approfondirla un po’ per intendere quale fu il suo approccio nell’analizzare la società e come seppe usare le teorie proposte da altri (l’idea era già in Adam Smith, condivisa da David Ricardo). Quale fu la conclusione? In soldoni: il lavoro è la fonte della ricchezza e il valore si determina in base alla quantità di lavoro contenuto nelle merci (‘lavoro incorporato’).

E, parlandosi di quantità di lavoro, pur considerandosi concetti come il cottimo, che lega la retribuzione alla quantità di prodotto lavorato in un tempo determinato, che rinvia direttamente alla catena di montaggio, è evidente quanto rilevi il tempo che un essere umano spende di sé per poter guadagnarsi da vivere. Lo fa non sganciato dagli altri e, infatti, Carl Marx segnala quanto sia rilevantissimo il ruolo dei rapporti sociali nello sviluppo dell’arte: “La concezione della natura e dei rapporti sociali, che stanno al fondo della fantasia e, quindi, della mitologia greche son forse compatibili con le filatrici automatiche, con le ferrovie, le locomotive e i telegrafi elettrici? Dove può andare a cacciarsi Vulcano di fronte a Roberts and Co., e Giove di fronte ai parafulmini ed Ermes di fronte al Crédit mobilier? […] è forse possibile Achille quando esistono polvere da sparo e piombo? O in generale l’Iliade con il torchio e la macchina da stampa? Con il torchietto da stampa non finiscono necessariamente il canto, la leggenda e la Musa? Non scompaiono, insomma, le condizioni necessarie della poesia epica?” (tratto da Introduzione a ‘Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica’). Altro problema, invece, è se sussista o meno la libertà di chi si occupa di arte e cultura e Marx lo approfondisce per confutare la fondatezza del dogma borghese sulla sua esistenza, segnalando che l’opera d’arte nel sistema capitalistico di produzione è soltanto una merce. Se l’operaio vende la forza lavoro, l’artista vende le sue capacità.

E, quindi, l’opera non si produce per sé stessi o per la collettività, bensì per il mercato. In tal senso è legittima la domanda: Ma l’artista è in grado di produrre autonomamente, dunque in libertà? Sarebbe certamente possibile se non dovesse pensare al mercato, per vendere e quindi guadagnarsi da vivere. Ciò implica che l’attività artistica è libera solo in linea di principio ma non corrisponde alla verità dei fatti. In fondo, pertanto, chi fa arte o si occupa di cultura è schiavo del mercato né più e né meno dell’operaio che, a certe condizioni, viene espulso dal mondo del lavoro, cosa che accade pure agli imprenditori che, non reggendo le dure leggi del mercato, vengono espulsi dal sistema produttivo. Pertanto, se tutto ciò è esatto, come mai si giunge alla conclusione che la cultura non paghi? La risposta è banale dal punto di vista dello Stato: “Se io Ente erogo un contributo a una associazione per un evento culturale quella e i suoi associati non danno nulla di concreto. Se, invece, do un contributo a una azienda industriale o costruisco una infrastruttura per una attività economica, queste creano posti di lavoro, producono ricchezza, aumentano altri investimenti e i dipendenti spendono di più. Si crea così un circuito virtuoso”. Nulla di più falso. A prescindere dal fatto che anche una associazione culturale può essere una azienda (complesso di beni) e creare posti di lavoro, le altre mica è detto che investano o creino posti di lavoro. Quante sono le aziende che hanno preso il bottino (il finanziamento) e sono scappate via? L’Italia si caratterizza per essere uno dei Paesi in cui creare un posto di lavoro costa di più. Peraltro, nei decenni scorsi il sistema degli incentivi e dei disincentivi si è mostrato fallimentare ed è difficilissimo modificare la mentalità degli imprenditori, giungendo ad altri risultati. Verrebbe anche da porsi una domanda: “Ma la vera ricchezza dell’Italia è oppure no la mole di beni architettonici e culturali? E se così è, si può mai pensare che curarli, ovvero gestirli prima che se ne cadano o che si debba non più coltivarli, sia antieconomico?”.

Alessia Orlando e
Michela Orlando

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