Sarà inaugurato il prossimo sabato 27 settembre alle ore 11.30 il reportage ‘Nossa Copa è na rua’ di Luigi Spera. Una testimonianza del Brasile in lotta che si è conosciuta mediaticamente durante il Mondiale di calcio in Brasile della scorsa estate. Il racconto di Spera raccoglie le varie anime della protesta. Quelle nuove, scoppiate proprio per attirare attenzione a margine dell’evento sportivo e quelle ormai storiche, che fanno parte della quotidianità di città come Rio de Janeiro. La mostra è inserita nella rassegna ‘Incontri fotografici’ della Scuola di cinema e fotografia Pigrecoemme di Napoli, che ha sede in piazza Portanova 11, luogo dove si terrà anche l’esposizione.
Interpellato da Radio Siani sulla mostra che inaugurerà fra qualche giorno Spera ha parlato anche di quello che è al centro di questo lavoro, la sua passione per il Brasile. “La mia passione per il Brasile è nata a ritmo di Samba. Alcuni anni fa per una serie di casualità ho iniziato ad avvicinarmi alle percussioni brasiliane (che ancora suono regolarmente). Rapito dai linguaggi del samba – dichiara Luigi Spera – è nata dentro di me la curiosità di andare alle radici di quel linguaggio musicale. Arrivato in favela nel mio primo viaggio a Rio sono rimasto folgorato e mi sono immediatamente dedicato allo studio storico, antropologico e sociale di quella realtà tanto complessa e piena di contrasti”.
Il reportage fotografico nasce anche da una rilfessione, ovvero che “il Brasile è uno dei paesi più famosi ma meno conosciuti”, dice Spera. “In materia di pacificazione delle favelas era chiaro quanto questo piano fosse legato agli eventi internazionali come mondiali e olimpiadi. Ho deciso così che avrei seguito l’evento sportivo, guardando dietro la patina dell’ufficialità imposta dalla Fifa. Ho seguito le contestazioni di piazza, e molte iniziative, comprendendo quanto a ‘pagare’ l’evento fossero sempre le fasce più deboli della società. Sul posto ho poi sperimentato, quello che tante volte amici ed esperto brasiliani mi avevano raccontato: la violenza bruta di una polizia impreparata e con ancora troppo forte la marca della dittatura nelle dottrine e tattiche di pubblica sicurezza e ordine pubblico”, conclude il giornalista.
Ciro Oliviero