Tra i coming soon degli ultimi giorni fa molto piacere notare qualche pellicola promettente, seppur schiacciata e oppressa da un panorama fitto di blockbuster e cine-panettoni annunciati (quale sarà la meta di questo Natale?).
Tra gli outsider di questo periodo troviamo addirittura Woody Allen che, dopo il successo di Blue Jasmine, una delle pellicole protagoniste agli Oscar 2014, ci presenta Magic in the Moonlight.
Il film si apre con un illusionista pseudo-cinese di grande successo, Wei Ling Soo, che fa scomparire un grosso elefante e taglia in due una donna sulle note del Bolero di Ravel. Reminiscenza di Scoop, ma stavolta il mago non è Allen stesso, bensì Colin Firth nei panni di Stanley Crawford. Dopo l’esibizione l’uomo viene avvicinato dall’amico e collega Howard (Simon McBurney) che lo incarica di sventare il presunto imbroglio di una sensitiva, sospettata di frode nei confronti di un’abbiente famiglia americana che vive in Costa Azzurra.
La sensitiva, Sophie Baker, è Emma Stone; il suo psicanalista pensa che mangi tanto perché ha bisogno d’amore e lei si giustifica dicendo che tante persone hanno bisogno d’amore, ma nessuno mangia per trovarlo.
I suoi capelli rossi e i suoi occhi chiari non basteranno ad abbindolare, almeno all’inizio, Stanley, famoso per la sua abilità nello smascherare ciarlatani e imbroglioni. Nonostante le intuizioni fenomenali della donna, che tramite particolari vibrazioni è apparentemente in grado di scorgere eventi futuri e passati, svelare identità e addirittura comunicare con un mondo ultrasensibile, l’illusionista rimane scettico ed esplicitamente ironico.
Contro ogni aspettativa, tra una frecciatina e l’altra, i due cominciano ad avvicinarsi e, successivamente, completamente sconvolto da alcune visioni di Sophie, Stanley si vede costretto a credere nelle sue sensazionali abilità. Comincerà quindi a credere nel mondo degli spiriti, trovando in ciò una confortevole serenità. Poi, però, arriva l’intuizione. L’illusionista capisce di essere stato egli stesso vittima di un’illusione abilmente architettata dalle persone intorno a lui per dargli una lezione. Stavolta, però, l’amore avrà la meglio su tutto.
British accent e un ego enorme, Stanley è freddo e disincantato, moderno seguace della filosofia illuminista per il suo atteggiamento spropositatamente razionale.
Da una vita intera ritiene la ragione superiore a tutto, anche ai sentimenti; per lui non esiste alcun tipo d’incanto, nemmeno quello dell’amore. È sposato con Olivia, insieme sono una coppia matchmade in heaven, lei è una donna a modo e lo conosce meglio di chiunque altro, eppure c’è qualcosa che non va. Come gli farà notare sua zia, è solo la sua “stupida logica” a suggerirgli che “dovrebbe amarla”.
Così comincia a mettersi in dubbio, riflettendo sulle ragioni per le quali si sente così strano in quel momento, riuscendo a realizzare di avere “positivi sentimenti irrazionali per te, Sophie Baker”.
Così il nostro protagonista acquisisce finalmente quel lato umano che fino ad allora, a causa della sua immensa fiducia per la ragione, aveva ignorato o, meglio, deciso di ignorare.
Il celeberrimo regista ha diviso la critica, ancora una volta. Dopo il grandioso successo di Blue Jasmine il pubblico è rimasto un po’ deluso da questo film che, probabilmente, si merita un tre stelle su cinque, contestualizzandolo comunque insieme agli altri lavori di Allen. Resta comunque un film da vedere, specialmente se dovete scegliere tra quelli presenti in sala (intanto io ci sto ancora pensando, ma poi i cine-panettoni sono ancora legali?).
Il progetto iniziale era molto buono, ma forse sarebbe stato possibile svilupparlo meglio. In alcuni punti il film ci sembra un po’ vuoto e, fondamentalmente, nonostante la filosofia che c’è dietro sia valida e condivisa, il modo in cui viene restituita può sembrarci frettoloso. In altre parole il rapporto tra la Stone e Firth è disegnato in maniera confusionaria e risulta poco convincente. Lui inizialmente la disprezza, poi con un volo simile a quello del Darcy della Austen si innamora di lei, ma mancano i giusti tasselli per costituire il puzzle finale fatto da un sentimento che dev’essere per forza intenso, dato che spinge Stanley a lasciare la moglie e a negare le convinzioni che ha avuto per una vita intera.
L’atmosfera del film ci ricorda vagamente quella di Midnight in Paris, forse per l’ambientazione francese o forse perché hanno lo stesso direttore della fotografia. Darius Khondji, che vede diverse collaborazioni col regista newyorkese, riesce a restituire in maniera notevole il sole dell’estate in Costa Azzurra. La colonna sonora, principalmente composta da musica classica, propone anche un’azzeccatissima You do something to me (You do something to me / Something that simply mystifies me / Tell me, why should it be? /You have the power to hypnotize me.)
Una sequenza interessante è quella di Firth e la Stone che si trovano nell’osservatorio astronomico e lui apre il tetto per poter guardare le stelle. La scena esprime la magia che in quel momento invade chi, di fronte alla grandezza dell’universo, non può che sentirsi piccolo e affascinato.
“Abbiamo bisogno delle illusioni per vivere”. Allen cita Nietzsche, portandoci al fulcro del film e riuscendo ancora una volta a sorprenderci con la sua pungente ironia e con la profondità dei temi che tratta, in modo estremamente sottile, nei suoi film. L’uomo, in quanto essere umano, sente l’esigenza di aspettare il domani che mai arriverà, di aggrapparsi a quella che Fitzgerald renderebbe come la luce verde all’altro capo della baia. Ed è per questo che Stanley, materialista incallito, riceverà una lezione, capirà che è inutile rinnegare qualsiasi tipo di emozione o speranza poiché questo coincide col rinunciare a una parte della propria umanità.
“Forse il mondo potrà non avere un fine, ma non è totalmente privo di qualche sorta di magia”.
Anna Scassillo