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Alien Covenant

Sull’Astronave Covenant ci sono 2000 civili e l’equipaggio in sonno criogenico. Una strana tempesta sveglia l’equipaggio: hanno una sorta di richiamo da un Pianeta simil-Terra, che non è quello cui sono destinati. Decidono di fermarvisi. L’inglese Ridley Scott, il regista e produttore di questo film (USA 17), nel 79, dopo che nel 77 aveva diretto l’interessante “I Duellanti”, se ne uscì con “Alien”: e che fu? Un delirio di film. Un capolavoro che rimase impresso nella fantasia e nell’immaginario universale. Fu un film sconvolgente. Anche se tutti eravamo orribilmente attratti dall’invincibile crudeltà e potenza (nonché dalla sua spaventosa bellezza) delle forme dell’Alien, un astuto xenomorfo, parassitoide in grado di sopravvivere in qualunque condizione; e dall’incessante e spasmodica lotta contro di lui, il film si arricchiva di numerosi spunti e di diversi piani di riflessione. Però tutti convergenti sullo sviluppo dell’azione: non lo rallentavano; anzi, ne davano una valenza più intensa, corposa e complessa. Il mostro fu opera dello scultore svizzero Hans Rudi Giger, che vi vinse l’Oscar. Le sue forme erano compatte e originali, e dinamicamente funzionali alla drammaturgia cinematografica adottata dal film, in un crescendo di velocissima, inarrestabile violenza claustrofobica. Trovava di fronte a sé la combattiva, indimenticabile, affascinante e femminile pur nella sua androgina tostaggine, Sigourney Weaver. Due interrogativi colpirono più di tutti. Il primo riguardante la natura del viaggio, e quindi dell’alieno stesso: si alludeva al fatto che la Società di Navigazione proprietaria del cargo Nostromo, una grossa finanziaria con interessi nell’industria bellica, avesse volutamente e cinicamente diretto la nave verso quei mostri per testarli, a spese dell’equipaggio, per quei fini. L’altro riguardava l’umanoide Ash, interpretato dall’inglese, attore shakespeariano, e bravissimo Ian Holm, di fatto un computer parlante: il suo ruolo era stato sviluppato in una modalità del tutto ambigua, perché pur a servizio dei naviganti e con loro benevolmente collaborativo, segretamente obbediva ai suoi programmatori, cioè la Compagnia; avendo comunque, se così si può dire, simpatia per Ripley, il personaggio della combattiva e combattente Weaver. I sequel che ebbe furono tutti creati sull’onda del coté visionario dell’Alien in quanto tale: dell’86 di James Cameron (“Aliens”), del 93 di David Fincher (“Alien 3”, a mio avviso il più compatto e originale), del 97 di Jean Pierre Jeunet (“Alien-La clonazione”): tutti non diretti da Scott, ma sempre con la necessaria Ripley/Weaver. Vi furono anche due cross-over: che intrecciavano personaggi di due cicli diversi, ovvero Alien vs Predator. Vi fu inoltre un “Alien 2 sulla Terra”: ma, sotto falso nome (Sam Cromwell), era del nostro geniale e irredimibile Ciro Ippolito, realizzato a tambur battente nello stesso 79. Scott ha già diretto “Prometheus” (12), che si pone come un prequel, propriamente rispetto al suo del 79: e questo è il senso e la ragione della nota storica sul film. Cioè: ma chi è e da dove proviene questo Alien? E’ nato così o l’hanno programmato? L’inizio della risposta che si dà nel film del 13 è molto filosofica e adombra una visione, addirittura prebiblica, della stessa umanità tale da scardinare i nostri modi di concepirla. In “Covenant”, invece, mette in luce, e approfondisce, un altro fondamentale personaggio dell’intera saga: l’umanoide, il computer dalle fattezze umane che ne accompagna tutti i viaggi. Non a caso nei titoli di testa sono accreditati anche gli sceneggiatori, O’Bannon e Shusett, del film del 79. Mentre quelli “operativi” sono John Logan, sperimentato e bravo (a lui si deve l’innovativo cartone “Rango”, 11) e Dante Harper, che viene però dalla produzione esecutiva e dal montaggio. E’ lo stesso regista ad aver messo in evidenza, in numerose sue dichiarazioni, tali nuclei tematici. E’ decisamente l’umanoide il protagonista. Addirittura, è così importante e pervasivo il suo protagonismo che ce ne sono ben due. Ambo interpretati in modi esemplari e con sottili, profonde e inquietanti differenze da uno stesso dotato attore: Michael Fassbender. Il primo che appare sullo schermo è David: ma è in realtà è il “più vecchio”, presente in “Prometheus”, nonché in uno short movie (corto) di raccordo tra il film del 13 e il presente. E’ un androide che conosce, ama, apprezza e si emoziona davanti all’arte pittorica, la letteratura, la musica; si avvia lungo i percorsi di una contraddittoria umanizzazione: più simile ad un personaggio di “Blade Runner”. Invece Walter, presente sulla Covenant, è più asimoviano, rassicurante e meno ambiguo. La polarizzazione psicologica, nonché ideologico-culturale, che diventa ben presto conflitto tra i due, rende il film originale. Sono scontri di concezioni di ciò che è umano e di ciò che è post-umano; resi con differenziazioni solamente comportamentali, senza alcun plateale trucco o effetto speciale. Sono rappresentate in chiave riuscitamente attoriali, solo con minimi ma impressionanti scarti gestuali, scontri tra diverse evoluzioni di concezioni e problematiche sulle Intelligenze Artificiali; che oggi cominciamo a porci con maggiori, più attente e motivate e, diciamolo…, un po’ allarmate sensibilizzazioni. Perché ciò, che era pura fantascienza negli anni di “Alien” e soprattutto di “Blade Runner” (82), sta divenendo oggi realtà: anzi post-realtà, come dice lo storico e saggista israeliano Y.N. Harari. Su questo nucleo si fonda prima l’incontro con lo strano e misterioso pianeta, avvolto in un’atmosfera rarefatta, minacciosa e, pur se verde, del tutto silenziosa; poi lo scontro tra il mostro, l’equipaggio, e l’intelligente, sensibile ma per niente arrendevole eroina di turno, la “weaveriana” Katherine Waterston. Che è inglese, proveniente da serie tv e teatro. Non è solo, ma anche, un’angosciante, riuscita, spasmodica lotta per la sopravvivenza, come nel film archetipo. Ma qualcosa di più profondo e tematico, perché, come accennavo sopra, sono posti interrogativi piuttosto rilevanti. Che però, anche qui, sono calati nel cuore stesso dell’azione. A cui fanno da scenario “attivo” le architetture create dal visionario production designer (scenografo) Chris Seagers. Esse sono, da una parte, in continuità con quelle mostruose e fuori dal tempo del film del 79, di Michael Seymour; dall’altra, alimentano la dimensione onirica e la natura filosofica dello scontro in atto: sia tra i due androidi, che tra l’alieno e i nostri. Dando pure a quest’ultimo un senso e una prospettiva nuove; nonché l’imput per la necessaria continuazione. Concludendo: Ridley Scott è tornato ad essere “O’Masto” (il maestro).

 

Francesco Capozzi

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