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Lettere da Berlino

Berlino 1940: i coniugi Anna e Otto Quangel piangono il loro unico figlio morto in guerra. Decidono di scrivere delle cartoline anonime contro Hitler e il Nazismo: arrivano a inviarne ben 238… Presentato alla Berlinale 2016, e basato su una storia vera, il film (GERM-FRA-UK, 16), è tratto da un romanzo preesistente, l’ultimo dello scrittore tedesco Hans Fallada, “Ognuno muore solo” (46); il regista, Vincent Pérez, era già un affermato attore francese, ben noto anche oltralpe. Queste due caratteristiche, la fonte letteraria e la prevalente formazione attoriale del regista, avrebbero potuto dare vita ad uno spettacolo lento e cinematograficamente poco convincente, benché animato, come suol dirsi, dalle migliori intenzioni. Ma così non è stato. E’ vero che la sensibilità e la concentrazione  della regia si sono ben manifestate nella direzione degli attori, comunque splendidi. Che rispondono ai nomi di Emma Thompson e Brendan Gleeson. Ma è da dire che il film funziona: e non c’è scompenso alcuno tra le prove degli attori e la generale atmosfera narrativa che caratterizza il film. La ribellione solitaria, disperata e senza voce dei due coniugi, ma decisa e incrollabile, non trova nessun apparente riscontro eroico esteriore. Erano persone di mezza età, né colti né belli; gente ordinaria, come tanti altri, banali e grevi, nel loro rappresentare, ed essere fino in fondo classe operaia e popolare della Germania del tempo, magari un po’ più lucidi e meno passivi rispetto alla propaganda del regime. E lo erano per refrattarietà istintiva rispetto a ciò che dicevano le autorità. A differenza dei tanti che vedevano in Hitler e nei nazisti, la salvezza assoluta: che li aveva fatti uscire dalle paludi dei disordini e incertezze sociali del periodo della Repubblica di Weimar. Ma l’assurda e profonda insensatezza di una guerra, che doveva necessariamente essere lo sbocco finale della follia del Nazismo; e che, dal loro interessato, per quanto limitato e minuto punto di vista, non ha nessun fondamento o giustificazione; ma che ha fatto trucidare il loro unico figlio, li ha posti di fronte al regime. La diffidenza si è trasformata in discredito: e questo, animato dal dolore assoluto per la perdita dell’unico figlio, è diventato insofferenza e desiderio di opposizione. Ma tutto ciò avviene nel silenzio di questi cuori, senza proclami né altisonanti o “nobili parole” lasciate ai posteri. Il film è fortemente concentrato su questa dimensione, più che di solitudine, di insularità sociale, comunque sostenuta dal bastarsi a loro stessi: l’amore, profondo e reciproco, aveva dato uno sbocco diverso non più disperante o angosciante all’immane lutto subito. Aveva dato loro un’energia leonina. Perché solo una consapevolezza di questo genere poteva portarli a confliggere col Sistema Hitlerian-Nazista, dove tutto era un grigiore senza fine, efficiente oppressione e deserto. In questa definizione, la direzione della foto, di Christophe Beaucarne, è di grande ed efficace supporto. Il suo originale e riuscito cromatismo accompagna come un incubo a occhi spalancati la descrizione, più eloquente di ogni discorso, di questa prigione a cielo aperto, che era il Reich hitleriano. Esso scorre attorno ai due: li circonda, ma non li permea; essi vi resistono, pur essendo perfettamente consapevoli dei pericoli cui andavano incontro: erano i due contro Tebe. Hanno una forza che si esprime negli sguardi e nelle posture di gente “di poco conto”. Il film ci consegna, in questa infinita atmosfera plumbea, il dissolversi del regime: ma che diventa, a causa di questo, ancora più feroce, occhiuto e pervasivo. E lo vediamo dagli occhi quasi bovini della apparente indifferenza di Otto: ma che comprende bene come la partita sia ancora più esasperata, perché la stupidità si associa all’incapacità di gestire un destino diverso da quello atteso, e li rende ancora più disumani e vendicativi contro chi abbia osato ribellarsi. Tuttavia, nonostante il terrore omertoso e complice dei cittadini berlinesi, la autorità inquirenti e le SS non riescono prenderli: e questa impotenza resterà tale nello spiegarsi il perché del loro fare. E questo si evince dall’esito che si darà il personaggio del Commissario, il bravo Daniel Bruhl. I due coniugi sanno che è solo questione di tempo. Ma non demordono. La linearità della trama è impressionante. Ma la riuscita, anche dal punto di vista del thriller, è assicurata dalla perfetta scansione dei tempi del montaggio: curato da François Gédigier, che vanta un’esperienza di lunghissima data, avendo collaborato col meglio del cinema francese. La nostra attenzione non è mai dispersa in rifiniture di azione inutili o semplicemente superflue. Come quelle dei dettagli vuoti e scoloriti dei condomini berlinesi: il loro insistito manifestarsi esprime un senso raggelante di silenzio ambientale. I due protagonisti danno vita ad una comunione di esseri intima e intensa; non solo di grande sensualità (yes!): benché imbruttiti, essi sono vivi e vitali. A differenza della nazione che si trascina apatica, smorta e ignara: che si sta avviando come un gregge impotente e silenzioso al baratro della propria distruzione, a quella “Germania anno zero” delle macerie del dopo nazismo. 

Francesco Capozzi

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