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Una vita possibile

Dopo un’ennesima manifestazione di violenza da parte del marito, in più davanti al loro figlio, Anna decide di abbandonare la casa, la città. Lei, suo figlio Valerio, vanno da un’amica a Torino, e qui cercano di costruire un’altra esistenza. Il regista del film (ITA-FRA, 16) Ivano De Matteo ne è anche sceneggiatore insieme a Valentina Ferlan, sua abituale collaboratrice, e compagna nella vita. Gli autori furono colpiti dalla vicenda di una loro amica, che sembrava parte di una coppia “normalmente” felice, che gettò un faro di luce su una situazione assai violenta, tenuta nascosta tra le mura domestiche, che li spinse ad investigare e informarsi. Sulla base di questa ricerca, hanno dato vita al nucleo narrativo del film. Che “non è una storia di fuga, né si insiste sugli abusi”; ma, come De Matteo ha dichiarato, “non è una storia voyeristica, (…), soprattutto non volevo entrare nelle motivazioni che spingono a subire. Non ho gli strumenti, sarebbe presuntuoso solo provarci: ogni storia è a sé”. Cioè: tutta l’attenzione è concentrata sul “dopo” che la violenza si è manifestata; su come madre e figlio preadolescente sono riusciti a fuggire quella insostenibile violenza domestica. Tenendo conto che i femminicidi cui noi assistiamo, avvengono proprio per questa mancata presa di coscienza: se i segnali domestici non sono sufficienti; né le denunce all’Autorità Giudiziaria, non resta che l’acquiescenza, peraltro incoraggiata da vecchie e ipocrite concezioni patriarcal-familistiche, portatrice di ulteriori irreparabili danni; o la fuga. Tenendo ancora in conto che, per l’attuale legislazione, solo a fatica, come è detto nel film, i genitori, anche violenti acclarati, perdono la Patria Potestà. Il film investiga su quali strascichi psicologici e comportamentali abbia causato. Non solo sulla madre: ma soprattutto sul figlio tredicenne. Anzi, è proprio quest’ultimo il protagonista del film: è il suo sguardo che accompagna l’evoluzione della madre, sia nei suoi confronti che dell’ambiente circostante. Ed è l’insieme di tutti questi elementi, che lo rende, sulla base della ricca complessità tematica, un’opera largamente riuscita dal punto di vista dell’impegno civile. Ma tanto più efficace in tal senso perché accompagna l’approfondimento di questi aspetti, con sguardi intrisi di delicatezza poetica, rigore e coerenza psicologica, calando il tutto in un adeguato senso della narrazione cinematografica. Né facendo che le interessanti e profonde riflessioni sui fatti, anche di alcune reazioni connesse, avessero altra voce se non quelle delle espressività filmiche. Margherita Buy, ad esempio, molto brava nel ruolo della madre, non fa la solita sfigata “madonnina infilzata”, cui spesso la relegano stucchevolmente i nostri registi colti, ma una donna combattente e sofferente, che avverte tutto intero il peso della complessità della battaglia in corso. C’è una sequenza in cui, in un primissimo piano, ci appare “vecchia”: né abbellita da make-up o da flou fotografici; in cui la tensione e le incertezze la consumano: tuttavia non la fanno recedere dalle sue giuste scelte, anche a costo di andare contro l’incomprensione momentanea del

figlio. La sua concentrata efficacia gestuale è massima. A lei fa da contrasto la fresca, attenta delicatezza, “coperta” da un’esteriore svampitaggine, e leggerezza della generosa amica Carla, Valeria Golino: il suo porsi nei confronti suoi e del figlio, il giovanissimo Andrea Pittorino, è affettivamente efficace. In un mare di solitudine istituzionale, questa solidale sorellanza è un antidoto quasi necessario. Lo sguardo unificante è del ragazzino. Egli legge la Torino multietnica e colorata del Borgo Dora, come un universo da esplorare: un “nuovo incontrato in fondo all’ignoto”; ma perfettamente in linea coi suoi tredici anni. E l’incontro con la prostituta, sua quasi coetanea, è di una delicatezza esemplare. Accompagnata dalla eccellente prova d’artista dell’attrice Katarina Shulha, in quest’incontro c’è impalpabile e ancora indefinita tensione erotica di ricerca, senso della fratellanza e dell’amicizia, sofferenza: senza la minima traccia di moralismo larmoyant. Il ragazzino è sballottato tra la “fedeltà” e mancanza della figura paterna, e il ricatto che costui gli pone cinicamente nei confronti della madre per il ritorno tra le pareti della galera domestica; e la lucidità coraggiosa, più affettivamente consapevole, della radicale scelta di sopravvivenza operata dalla madre. Il rapporto col “padre mancato”, il vicino Raoul, l’attore svizzero-francese Paolo Toeschini, non è vicariante: ma certo esprime una sensibilità diversa, che fa da pietra di paragone. Ho trovato il senso della narrazione, nello stesso tempo, avvolgente empaticamente e razionale. Nel mentre, cioè, faceva tralucere esemplificazioni chiarificatrici di ragionamenti, alla base della pregnanza di alcuni veloci dialoghi ed efficaci illustrazioni di situazioni. Questo vuol dire una sceneggiatura di grande finezza ed efficacia. La fotografia di Duccio Cimatti accompagna questa scoperta che è, contemporaneamente, fiabesca e realistica di una Torino magica da parte del ragazzino. Ma complessivamente essa ci appare come a misura d’uomo: dai colori caldi e dagli ambienti invitanti. Da rilevare è il fluido scorrere del vario incrocio di fatti ed esistenze: come, ad esempio, la partentesi di lei che fa le pulizie notturne; e di come questo lavoro entri nella vita del piccolo gruppo dei personaggi. C’eleganza, utilità narrativa, credibile impatto cromatico e di linee. Emerge la qualità artistica e alta professionalità del montatore del film Marco Spoletini, uno dei più bravi dell’attuale cinema italiano.

Francesco Capozzi

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