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Nymphomaniac, vol. II di Von Trier

Jo, ferita, continua la lunga riflessione di autocoscienza sulla sua ninfomania col suo salvatore, il non impassibile, attento e maturo Seligman, che sfocerà in un finale a sorpresa.

Il danese Lars Von Trier, regista, sceneggiatore e produttore di questo film, è riconosciuto quale creatore della ‘scuola’ del Dogma. Decisamente iconoclasta: con punte, debbo dire, di vera sgradevolezza. Come nella sua provocazione antiebraica di qualche tempo fa. E anche in questo film ha seguito la via della sfida intellettuale. Nelle sale circola la versione “accettata, ma non approvata” dal regista, di quattro ore, contro le cinque ore e mezza della originale. Sono state espunte scene di ripetuto sesso esplicito anche in partouze. Tuttavia l’aspetto provocatorio è del tutto marginale: lo scorrere della narrazione lungo i sentieri della pornografia, esplicita, per quanto limitata nella versione circolante, accresce la riuscita del film. Anche se si tratta di un hard addomesticato, con controfigure, effetti digitali, eccetera.

Ma lo spettatore si domanda cosa voglia dire il regista. Perché è evidente che tutto il film è una costruzione mistificata mirata a mettere in campo delle tematiche particolari. Credo che il nocciolo abbia a che fare con la formazione scandinava di Von Trier: come nel cinema del Dogma, bisogna perseguire la realtà, in modi spietati e irriverenti. Ma cosa ci nasconde, ciò che noi chiamiamo realtà? La falsificazione. Ritorna spesso, in questa seconda parte, il tema dello specchio, in cui la protagonista ha timore di guardarsi, perché le rimanda l’immagine di lei parlante di sé, ma che non scende nel suo profondo: vi sfugge. Ne ha paura. Jo si riconosce esplicitamente ninfomane: ne paga i devastanti prezzi sociali e familiari. Questo apparente orgoglio è l’intelligente modalità di autodifesa: ma non la rende immune dai residui di sentimento che la travolgeranno e porteranno alla crisi dolorosa e violenta, in cui le ferite sono vere e incontrollate, da cui scaturisce l’intero film in flashback.

Il film è una coraggiosa discesa agli inferi, che nasconde una dimensione di desiderio di salvezza, per quanto in parte contraddetta dall’ironico sottofinale. Ma quella forte dimensione di colpa mette in disperata evidenza il tema della pervasività del male, all’interno delle nostre esistenze. Tema che è tipico della religiosità luterano-calvinista di molta parte della cultura nordica europea, cinema e letteratura poliziesca comprese, anche se in fogge che sembrano lontane dalle evidenze religiose esplicite, del tipo alla Bergman o Dreyer, ma rimandano decisamente ai conflitti etico-comportamentali della contemporaneità. E credo che il regista danese vi faccia un ironico riferimento nel nominare Seligman, che ha assonanza con Bergman, il suo apparente salvatore. Ma è tutto il film che, a mio avviso, ‘gira’ su questo aspetto. E da questa visuale tematica assume una forma stilistico-visuale, non solo impeccabilmente unitaria, ma rigorosa e che lo rende non solo scorrevole, ma notevole e molto personale.

Von Trier riporta nella sua cifra linguistica tematiche psicologicamente complesse: Charlotte Gainsbourg è dolorosamente e morbosamente attratta dall’oscurità del suo essere, ma talvolta perfino con ironia, come nell’incontro coi neri à trois. La visualità è meticolosamente de-soggettivizzata: sembra scarna, ma è essenziale, e concentrata sulle interazioni tra i personaggi. E ciò grazie alle rese della fotografia (diretta dal cileno Manuel Alberto Claro), in un indefinibile acromatismo grigio, polveroso e malaticcio; e del montaggio, modulare e, pure, contemporaneamente asimmetrico, di Molly Marlene Stensgaard, che ha efficacemente collaborato con lui fin dai film del Dogma. La colonna sonora è del gruppo tedesco tanz metal Rammstein. Pregevolissima è la loro cover di ‘Ehy Joe’ di Jimi Hendrix dei titoli di coda.

Ciccio Capozzi

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