La città di Napoli, grande madre del mediterraneo, doveva essere ridotta a fango e cenere dalla vendetta nazifascista. La violenza, l’odio, l’inferno, che i napoletani seppero respingere, risorgendo dalle loro viscere, rappresentarono l’unica strada per raggiungere la libertà. Per conquistare le stelle, bisognava calarsi nell’ inferno dalla fame e della povertà. Se si voleva la pace, bisognava fare la guerra. E’ questo che gli scugnizzi, i femminielli, il popolo e soprattutto le donne, raccontano nel docu-film di Massimo Ferrari, Quattro Giorni per la Libertà, cinematograficamente cesellato nell’immaginario del regista romano, tra gli sguardi antichi, epocali e profondi dei racconti di Maddalena Cerasuolo e dell’ultimo partigiano Antonio Amoretti e la matita fine, realista e libertaria della partenopea Mad Entertainment.
La marcia fascista su Napoli, il Duce che scorrazza in una città attonita, è il preambolo alla distruzione. La barbarie si fa arma e la morte è pronta a dominare Napoli. Ma chi ha vissuto millenni di storia, per cultura, civiltà e spirito di ribellione, non è mai dominato. Napoli porta dentro di se una vena protettrice, mai padrona ma sempre pronta a vivere in libertà. In quei quattro giorni in cui Partenope fu la prima città europea a ribellarsi da sola è scritta la costituzione del popolo napoletano. E una città che combatte da dentro, che vive, sanguina, ma come il suo magma ribolle e alla fine erutta.
I tedeschi trovano le barricate di un popolo coraggioso, barricato. Nei vicoli , in ogni piazza si combatte, si spara, in maniera partecipata unicamente per la voglia di non sottostare alla ferocia nazista. Sono i comuni mortali che si fanno eroi e portano i nomi di Gennarino Capuozzo o dello stesso Amoretti detto o’biondino. Piazza Carlo III, il Vomero e via Foria sono gli incroci dove si decidono le sorti della città. Si lotta, si spara ci si ribella. Un intera popolazione incarna e difende ciò che da sempre gli appartiene. La cultura, la bellezza non devono sprofondare nell’oblio della morte.
E la Galleria Borbonica diventa il rifugio, il grembo di quella grande madre, che si narra nei racconti delle sue maestranze ed eccellenze, ripercorrendo il coraggioso valore di un popolo. Passa storicamente e culturalmente dalla Napoli di inizi anni 20, a quella di Concetta Barra, nei ricordi del maestro Peppe Barra, sino a quella di Eduardo De Filippo, che dipinse il più grande affresco teatrale del dopoguerra, quella “Napoli Milonaria” che anticipava le sofferenze, le ansie, e i problemi di quello che sarebbe stata la città tra il 1943 e il 1945.
Napoli seppe ritornare alla luce, al paradiso, risorgendo lottando come un araba fenice. Per intrinseca e antropologica formazione è una città sempre pronta a fare i conti con le proprie luci ed ombre, ma incredibilmente unica nel saper deviare il corso della storia , in nome della libertà, ad ottanta anni di distanza, quel Mo Basta!, risuona come un inno al riscatto scolpito nelle pagine dell’Italia intera.
Sergio Cimmino