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Il giovane Karl Marx

Anni 40 dell’800: Karl Marx, ventiseienne filosofo rivoluzionario “senza arte né parte”, ma con moglie e figlie, è sballottato, perché cacciato dai vari governi reazionari, tra Berlino, Parigi, Bruxelles. Incontra Engels, e insieme, nel febbraio 1848, scriveranno il Manifesto del partito comunista. Certo ci voleva del coraggio a realizzare un film (GER-BEL-FRA, 17) su Marx.

Non solo e non tanto perché è un personaggio esemplificativo di un orientamento politico, legato strettamente al secolo scorso, e al conclamato fallimento dei cosiddetti paesi del “Socialismo Reale”, che si definivano marxisti: anzi, se è per questo, si sta assistendo, al contrario, ad una sua sorta di riscoperta. Ma perché è proprio difficile. Si basa su una bella e articolata sceneggiatura del suo regista, Raoul Peck, e dello sperimentato francese Pascal Bonitzer: tutti e due interessati ad un cinema attento al sociale. Al regista haitiano e di colore, attivo in patria ma anche in Usa e in Europa, dove ha studiato cinema a Parigi e a Berlino, si deve un recente film, tra fiction e di realtà “I’m not your negro” (16), molto significativo e d’impatto. Iniziò nel 91 con uno prodotto ad Haiti, su Lumumba, un democratico e patriota congolese degli anni 60, ucciso dai Servizi europei. Bonitzer è un intellettuale molto versatile: accanto a film, e serie tv d’impegno laico e politico, ha scritto anche vivaci commedie come “Gemma Bovery” (14) con la splendida Gemma Atherton e il lunare e geniale Fabrice Luchini; ma anche il bellissimo, ieratico e sconvolgente “Agnus Dei” (16). Peraltro tutti e due della regista francese Anne Fontaine. Voglio dire: gli autori del film sono gente che viene professionalmente da lontano e non stupisce che siano riusciti a costruire e mantenere nella sceneggiatura un punto di vista narrativo unitario, quello che è chiamato tecnicamente un concept, al film, che lo regge e lo rende assolutamente godibile, nonostante la difficoltà se non l’osticità della materia. Essi lo hanno “umanizzato”, ma non nel senso hollywoodiano di banalizzato, i personaggi rigorosamente storici. L’hanno fatto sulla base di una rigorosa e ineccepibile documentazione storico-documentaria, su cui hanno immesso delle riflessioni psicologiche che tenevano assolutamente conto di quegli elementi. Essi hanno brechtianamente individualizzato la generalità del loro pensiero: l’hanno incarnata nella gestualità dei due attori, bravissimi, che hanno interpretato Marx (August Diehl, berlinese, ha lavorato anche con Q. Tarantino) ed Engels (Stefan Konarske, tedesco, attivo anche in Francia). La loro umanizzazione non è, però, uno spettegolare dal “buco della serratura”, ma la considerazione, ben documentata, delle diverse caratterialità dei due: Karl era fin troppo sicuro di sé, ma intelligentissimo, orgoglioso e bellicoso; tuttavia sapeva essere duttile e appassionato, sia nella lotta politica che negli affetti familiari. Engels, timido, elegante se non vero dandy (era figlio d’industriali), all’apparenza, ma con un forte senso di solidarietà umana e civile, e provvisto di acuminata intuizione politico-scientifica: a dire il vero, anzi, fu proprio Engels che con “Le condizioni della classe operaria in Inghilterra” del 1844 (citato anche nel film), aveva provato, prima ancora di Marx, lo strettissimo legame tra le condizioni miserrime degli operai di Manchester con la visione globale del capitalismo e della società divisa in classi. Che poi è l’intuizione sviscerata da Marx nel “Capitale”. Da questo punto di vista è da sottolineare che nel film tutti questi passaggi scientifici sono enucleati non solo in maniera chiara ma inappuntabile: come ha rilevato più di un esperto (ad esempio il saggista Diego Fusaro). Poi c’è il doveroso spazio alle consorti, non solo come iconcine, ma come donne, dei due: nel passato tenute narrativamente in disparte. Jenny Von Westphalen, che pur di nobile stirpe prussiana sposò Karl, spiantato e mezzo ebreo, rimanendogli sempre a fianco anche nelle più drammatiche vicissitudini; e Mary Barton operaia irlandese di forte personalità che restò accanto a Engels per la vita. Sono due attrici molto dotate che vi danno vita: Vicky Krieps, lussemburghese, già vista in “Il filo nascosto”, è Jenny, molto intimistica e fine. Hannah Steele, attrice inglese è Mary: il suo porsi è sfrontato ma empatico e intelligente. Sono illustrate le esistenze dei due fondatori del cosiddetto socialismo scientifico, e le loro vicissitudini e conflitti non solo contro i governi reazionari, ma soprattutto all’interno del già variegato fronte dei socialisti utopici e anarchici. E ciò fino alla realizzazione di un momento topico e di svolta della loro vicenda, e di quella del movimento socialista e democratico dell’intero secolo e di quello successivo: la stesura del Manifesto per la “Lega dei Giusti”, che su loro impulso si trasformerà in “dei Comunisti”. Non c’è la minima traccia di retorica. Ma la piena consapevolezza dell’aver tracciato una svolta fondamentale per l’affermazione della democrazia sia nei rapporti di lavoro che all’interno dell’intera società. La ricostruzione storico-ambientale è scenograficamente inappuntabile e ben illustrata. Non solo nelle sue linee generali, ma anche nei singoli dettagli di tipo domestico, costruiti con calore, attenzione e senso di appartenenza dei suoi abitanti. La fotografia di Kolja Brandt, tedesco ma ora attivo anche in Usa e Inghilterra, vi costruisce quel senso di opacità luminescente del tempo, soprattutto intorno a coloro che vivevano nelle difficoltà, nei bassifondi e nelle fabbriche. Determinante il contributo della montatrice belga Frédérique Broos: è riuscita ad amalgamare i vari e complessi passaggi sia di collocazione che di momenti storici con una sicura e fluida continuità visuale. Il sottofinale del film, proprio sui titoli di coda (la Main Title Sequence, usata con fini completamente e genialmente diversi da quella canonica hollywoodiana), illustra questa visione dando spazio, pasolinianamente, alle facce. Sono volti muti di gruppi di bambini, donne, uomini, giovani e anziani che si susseguono, come dei fantasmi viventi, ma di forte pregnanza umana, in diversi abbigliamenti, fino ai nostri giorni: di gente degli slums, dei barrios, dei tanti quartieri poveri del mondo; e non mancano momenti di conflitti a noi vicini. E’ un’attualizzazione, se si vuole, un po’ forzata e retorica: ma solo all’apparenza; in realtà è di effetto molto efficace e commovente dal punto di vista documentario. Essa, grazie all’accompagnamento azzeccatissimo, potente e metastorico allo stesso tempo, della canzone rock-blues di Bob Dylan “Like a rolling stone” (che ha sostituito “All along the Watchtower” di Jimi Hendrix), ci prende nell’intensità evocativa della rappresentazione di un processo storico inarrestabile; e che perdura ancora oggi, in forme nuove e diverse da quelle del vecchio e sconfitto socialismo reale. Ma che hanno sempre in quei due lo spunto creativo iniziale ancora attuale.

 

 

Francesco Capozzi

 

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