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150 Milligrammi

2007: nell’Ospedale di Brest, Francia, la pneumologa Iréne Franchon, scopre un legame sospetto tra la somministrazione di un farmaco e l’aumento della mortalità in pazienti cardiopatici. Da qui una lunga e tormentata battaglia contro la potente azienda francese produttrice del farmaco. Noi siamo abituati a considerare la cinematografia francese, almeno in gran parte di quei film che arrivano da noi, come dispensatrice di pippe esistenzial-filosofiche; e, anzi, le attribuiamo per questo, una specie di sigillo pregiudiziale di fascino culturale e coerenza. Il che in parte è vero: ma si tratta di una intelligente diversificazione industrial-culturale del prodotto da esportare, tale che abbia un suo profilo autonomo, non confondibile con quello spettacolare hollywoodiano. E che individui e coltivi un suo preciso pubblico di riferimento. Ben diverso è il caso del presente film (FRA,16). Non erroneamente è stato definito l’”Erin Brockowitch” francese, con riferimento al fortunato film hollywoodiano del 2000 con Julia Roberts: però lì era al centro un caso di criminale avvelenamento ambientale, protratto per anni, qui un farmaco. Ma il tipo di protagonismo è simile. Anche qui tratta di una donna forte e determinata. Su cui è incentrata l’efficacia del film: ed è un bel film di denuncia civile, quale raramente siamo abituati a vedere da noi. Le speculazioni sui farmaci sono odiose: ma gridano vendetta al cielo se è associato a questi, sapendolo, un pericolo di vita. E’ il caso del Mediator, il cui principio attivo è il benfluorex -nel film definito sprezzantemente una specie di anfetamina-, che, usato da pazienti affetti da valvulopatie cardiache, può creare gravi disfunzioni, fino alla dipartita. La scienziata, la dott Planchon, vi si imbatte quasi per caso. Ma, una volta presa la strada della verità, non molla. Sviluppa la sua intuizione in una ricerca che vi dà una veste di evidenza statistica; vi scrive un libro dal titolo-choc, in cui esplicitamente domanda: “ma quanti sono i morti?”, causati dal farmaco. E ingaggia la battaglia contro la Servier, la potente multinazionale francese del farmaco. E qui si vede come si attui la manipolazione sedicente scientifica, a limite della mistificazione corruttiva, anche altamente accademica: il titolo originale del film è “La ragazza di Brest” (“La fille de Brest”), dove si mette in evidenza come una provincialotta “osi” confrontarsi con le autorità accademiche di Parigi . Ma anche gli stretti legami con la politica (Servier era uno sponsor di Sarkozy) che influenza le decisioni degli organi preposti al controllo dei farmaci stessi. Organi la cui terzietà e completa autonomia dalle industrie, che sono null’altro che delle finanziarie avide di profitti, dovrebbe essere garantita per legge. Come la regista Emanuelle Bercot ha sottolineato, è il personaggio della dottoressa il perno di tutto. Nella vita è esattamente come ci appare nel film: vitale, empatica con le persone in cura, attenta alla famiglia; spiritosa: anzi, tendente al comico; intelligente, incrollabilmente onesta; ma dura e determinata quando serve. L’attrice danese Sidse Babbett Knudsen ne dà una rappresentazione memorabile: occupa la scena con forza e personalità; e anche con molte sfumature. Ad esempio la paura: il sapere che la partita si fa dura; ed è sola e sconfortata. Qui entra in scena il personaggio del marito: egli la sostiene in toto; si fa carico, insieme a lei, in modo silenzioso, accorto, affettuoso ed efficiente di tutte le difficoltà familiari, senza minimamente recriminare o mugugnare. L’attore Patrick Ligardes ne dà un ritratto che, per quanto discreto, è ricco di umanità. Il film è costruito come un thriller. La sua conduzione si basa, oltre che su personaggi vivi e veri, su una storia ben costruita, a sua volta ben documentata. La sceneggiatura, della stessa regista e di Séverine Bosschem, è ben calibrata e non perde presa, per quanto si dipani su un lungo arco temporale: dal 2007 al 2009. Anzi: essa è costruita in crescendo; perché i fatti e anche i colpi di scena incalzano, sia per la loro drammaticità che ripercussioni sui personaggi. Ed è il montaggio che permette allo spettatore di non perdere mai il filo della narrazione, nel suo urgere drammatico, cui si accompagna un’incessante e attenta, ma non invasiva o rallentante, opera di accurata documentazione. Il suo titolare, Julien Leloup, è attivo professionalmente da venti anni e ha lavorato con il più vivo cinema francese. Una nota a parte merita la direzione della fotografia, affidata a Guillaume Schiffman. Le tinte atlantiche della città di Brest sono interpretate e ravvivate dalla dimensione psicologica dei personaggi: è un modo di “leggere” la città che affascina e caratterizza ulteriormente la dimensione umana, “provinciale”, ma aperta su vasti orizzonti, del film.

Francesco Capozzi

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