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Rogue one: a Star Wars story

Un gruppo di ribelli, capitanati da Cassian Andor, imbarca nell’impresa di rubare i piani della super arma imperiale della “Morte nera”, Jin Erso, la figlia di Galen Erso, il coordinatore dei suoi progettisti, per cercare di convincerlo ad aiutarli. La loro spedizione è ricca di incontri e avventure. Per quanto già nelle idee di George Lucas, il film (USA, 16) è del tutto targato Disney, gli attuali proprietari dell’intera Lucasfilm. Trattasi di uno spin off: un film che sviluppa temi collaterali presenti, in tutto o in parte, nel film cui si fa riferimento. In questo caso, gli avvenimenti sono compresi tra il III episodio, il cui titolo era “La vendetta dei Sith” (USA, 05) (cioè il conclusivo della I trilogia prequel) e il IV, ovvero l’inizio della II Trilogia, che in Italia si chiamò semplicemente “Guerre Stellari” (USA, 77), ma il cui titolo era “Una nuova speranza”: e fu la II Trilogia che si concluse nell’83, con “Il ritorno dello Jedi”, ad essere il corpo centrale dell’intera narrazione. Poi nel 2015 uscì il VII film della saga (“Il risveglio della forza”): col quale inizia la III Trilogia, sequel, della saga. Però “Rogue one” è un’opera che, pur situandosi in un punto di snodo dell’intera saga, ne è autonomo: è un film “stand alone”; cioè che inizia e finisce, non avrà altri prosiegui. Già la LucasFilm, tentò un’operazione similare: toccò ai simpatici Ewoks, un popolo di simil-umanoidi, pelosi e primitivi, presenti con successo in “La vendetta dello Jedi”, che ebbero due film, nell’83 e 84, con loro al centro della trama, del tutto al di fuori delle vicende della saga: ma ebbero un riscontro non esaltante, e furono limitati alla tv e al mercato DVD. E non sono considerati spin off le Serie tv, di cartoni animati, che la LucasFilm ha prodotto. Ma l’incalzare della “macchina da guerra” Marvel con le sue centinaia di personaggi e storie senza fine, ha costretto la Walt Disney, oltre ad implementare il già ricco merchandaising legato ai vari titoli, ad aprire lo scrigno della saga per estrarre temi da cui si potessero trarre film con cui resistere all’imperversare dei personaggi targati Marvel; oppure a quelli DC. Questa è l’origine produttiva del film. Quindi gli sceneggiatori, Tony Gilroy, bravo e duttile, con all’attivo la serie di Bourne, e Chris Weitz, uno dei più abili sulla piazza, hanno dovuto molto ben calibrare storia e personaggi: in modo tale che non entrassero in conflitto con le vicende successive o precedenti; ma che intrigassero gli spettatori. E’ stata una sfida di non poco conto: ma che ha avuto anche vicissitudini produttive. Infatti, a film già ultimato, si è riscontrato che alle test preview (cioè presentazioni mirate fatte per testare il pubblico), il film non funzionava. I produttori, tra cui sicuramente le più titolate, toste, esperte e responsabili Kathleen Kennedy (una delle nuove regine di Hollywood) e Allison Shearmur (cui si deve la trilogia di “Hunger Game”), tra giugno e luglio 2016, a pochissimo tempo prima della presentazione ufficiale e nelle sale, hanno commissionato allo sceneggiatore Gilroy, che comunque ne aveva avute già valide esperienze, la direzione di diverse scene aggiuntive ed il rimontaggio dell’intero film, in particolare del finale, la parte più ardua; quindi, di fatto, quasi estromettendo il regista ufficiale Gareth Edwards. E’ stato un grande, vero, pericoloso azzardo: tra l’altro molto oneroso finanziariamente. Il film è costato la cifra-monstre di 200mln di dollari. Ma, va detto a onore delle produttrici che hanno avuto lo sguardo lungo nel rischiare, la scommessa è stata vinta. E alla grande: oltre ad essere un bel film, dopo un avvio strepitoso al primo week end USA, sta quasi per triplicare la posta iniziale. Il fascino del film sta nell’avere ripreso, al di fuori di quella magniloquenza, sorretta da una coerente visione quasi filosofica dei fondamentali conflitti tragici dell’umanità (potere/libertà; autorità/libertà; padri/figli; formazione/dipendenza; i diversi e contrastanti lati della “Forza” ecc), alcuni temi: che però sono stati resi nella loro essenza più umana, concreta e semplificata; privati di ogni afflato consapevolmente quasi metafisico; che, nel bene e nel male, rende la saga “Star Wars” unica e irripetibile. Qui la ricerca del padre, tema ricorrente nella saga, da parte della protagonista (un’altra dopo quella dell’episodio VII della saga), l’attrice Felicity Jones, ormai definitivamente star, ha caratteristiche emotivamente molto intense, sospese tra memoria dell’infanzia e sua brusca interruzione: da ciò ha tratto una determinazione che la rende forte e fragile allo stesso tempo. Così anche il padre, il bravo attore danese, ormai di casa a Hollywood, Mads Mikkelsen, esprime con intelligenza una scelta fatta con sofferta lucidità. E l’insieme dei comprimari, in un felice gioco di squadra, esprimono una movimentata linearità di comportamenti; inseriti in una cornice scenografica e di effetti speciali e visuali molto curata; e di grande efficacia e funzionalità complessiva. Il regista “ufficiale” Edwards in effetti viene da quel settore espressivo: e qui si vede che è stato curato con assoluta professionalità. Ma, forse tutto preso dalla cura degli SFX (gli effetti speciali), probabilmente, ha reso il suo finale drammaturgicamente ed espressivamente fiacco; e non tale da chiudere in maniera adeguata e convincente la complessa situazione del film. Mentre invece l’attuale final cut non solo dà contezza dei limiti entro cui era da “chiudere” la storia, senza farsene narrativamente rinchiudere; ma ne offre una soluzione particolarmente convincente dal punto di vista psicologico e delle ricche e varie dinamiche che si erano instaurate tra i personaggi. Addirittura tre i bravi montatori della ricchissima materia narrativa; la cui cromaticità è unitariamente molto post apocalittica: curata con decisa resa dall’australiano direttore della foto Greig Fraser. Le musiche non sono più di John Williams: ma le riecheggiano in modi originali e coinvolgenti: esse sono di Michael Giacchino.

Francesco Capozzi

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