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Fotografare le guerra

“Il terrorismo è la nuova forma della guerra, è il modo di fare la guerra degli ultimi sessant’anni: contro le popolazioni, prima ancora che tra eserciti o combattenti. La guerra che si può fare con migliaia di tonnellate di bombe o con l’embargo, con lo strangolamento economico o con i kamikaze sugli aerei o sugli autobus. La guerra che genera guerra, un terrorismo contro l’altro, tanto a pagare saranno poi i civili inermi” (Gino Strada)

“Un giorno anche la guerra si inchinerà al suono di una chitarra” (Jim Morrison)

FOTOGRAFARE LA GUERRA

A prescindere dal fatto che la cronaca italiana racconta di molti focolai di violenza che hanno ben poche differenze rispetto ai molteplici focolai di guerra conclamata, c’è sicuramente da chiedersi a quali tipi di rischi si espongano i fotoreporter che si recano nelle zone calde e con quale approccio lo facciano. Purtroppo, relativamente ai rischi, si sa di molti che hanno perso la vita e in ognuno di quei casi non è mai emersa una loro responsabilità, come è ovvio, ma neppure leggerezza nell’affrontare i pericoli per assolvere il dovere di cronaca. Altre domande sarebbero legittime. A esempio: qualora un fotografo italiano, percepiti con esattezza i drammi che si vivono qui e lì, cosa dovrà fare per poter recarsi in quei luoghi? Il presupposto essenziale è: per poter informare occorre conoscere le realtà dove ci si vuol recare. Non sono consentite leggerezze. Si vorrà, a esempio, riprendere quei volti di bimbi struggenti o le donne in burqa, illuminate da un alcune che non troverai altrove ma lasciando trasparire quel fondo di nostalgia che inevitabilmente ci si porta via quando si ritorna. È fondamentale restare in grado di informare anche successivamente, dopo aver scattato, poiché le immagini avranno bisogno del sostegno della parola, per quanto siano infinitamente significative in sé. Non ci sarà essere umano in cui ci si imbatterà che non sia protagonista di una storia speciale e significativa, da conoscere. Si potrà, così, rendere noti anche luoghi sconosciuti. In passato è toccato, a esempio, a Kabul e Kandahar come a Herat… ovvero l’Afganistan che agli italiani era praticamente sconosciuto e grazie a ai nostri fotoreporter risulta familiare. Tutti coloro che hanno voluto informarsi seguendo i telegiornali, leggendo, osservando le fotografie, adesso sanno che in quei luoghi non c’è un solo popolo, una sola anima nazionale e, di conseguenza, sono molteplici anche i segni distintivi degli abitanti.

Tutto ciò renderebbe speciale l’esperienza umana e professionale, qualora si volesse recarsi in quei luoghi, per raccontare la propria quotidianità, gli aspetti capaci di cogliere e fotografare nella geografia circostante, negli sguardi, tra le ombre, nelle le luci e nei riflessi bruniti delle armi da guerra. Come farlo? Se la natura della fotografia non cambia, è ovvio che in quei luoghi occorre saper padroneggiare non solo la fotocamera e gli obiettivi, ma anche sapersi avvicinare alla gente, conoscere le lingue o avvalersi di un interprete, cogliere i pericoli che possono coinvolgere in prima persona ma anche quelli delle persone che si intenderebbe riprendere…

È necessario sapere che non ci sono esperienze sufficienti per sentirsi al sicuro da rischi gravi ed è per questo che occorre seguire un iter preciso per diventare inviato di guerra. Ovviamente occorre volerlo fortemente, senza titubanze ma consapevolmente. È evidente che si tratterebbe di sconvolgere la vita anche dei parenti. Essi, per primi, saprebbero intuire i rischi da affrontarsi con prudenza. Sono respinti gli atteggiamenti alla John Wayne.

Esistono dei corsi per diventare giornalisti embedded. Di uno si può approfondire qui. Essi sono proposti dalla Federazione Nazionale della Stampa che pianifica assieme allo Stato Maggiore della Difesa. Attraverso questa strada di può conseguire l’accredito presso la Difesa e mettersi a disposizione per andare in missione in uno dei teatri dove sono presenti militari italiani.

Per approfondimenti e fotografie dai teatri di guerra, si può scaricare il pdf de ‘Il giornalismo embedded – Ministero della Difesa’, di Stefano Grossi, giornalista freelance.

Alessia Orlando e
Michela Orlando

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