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Di Caprio e Cifariello: omicidi appassionati

Lord, this bitter earth/Yes, can be so cold/Today you’re young/Too soon, you’re old/But while a voice within me cries/I’m sure someone may answer my call And this bitter earth/Ooooh may not/Oh be so bitter after all (…).

This Bitter Earth / On The Nature Of Daylight, Dinah Washington & Max Richter

DI CAPRIO E CIFARIELLO: OMICIDI APPASSIONANTI E FOLLIA

La vita è un film? Si potrebbe rappresentarne una, sorprendendo con fotogramma dopo l’altro, magari scelti a caso? I risultati quali sarebbero? Con qualche esempio si potrebbe avere una risposta plausibile. Forse ne basterebbe uno. Eccolo: “La conobbi al Teatro del Varietà di Roma, vestiva di rosso con trine nere … ed era bellissima”. È la dichiarazione di Filippo Cifariello nell’interrogatorio reso durante il processo in Corte di Assise. È tratta dall’articolo dell’avvocato Nino Marazzita, pubblicata nel web giornale Polizia e Democrazia.

D’altronde. qualcuno ha cantato: la vita non è un film. La giusta misura sta nel mezzo, probabilmente e quindi se non lo è in molti casi poco ci manca. È solo questione di ritmo, di tempi. Molti fatti, che hanno molto di cinematografico, potrebbero essere raccontati impiegando un tempo che dovrebbe rasentare l’eternità. Purtroppo sarebbe quello il tempo richiesto per evidenziare tutto, tutte le sfumature, le implicazioni, le suggestioni, i collegamenti. Peraltro, come è ovvio, nel tempo dedicato alla narrazione il cervello cadrebbe in errore; cederebbe alla voglia di modificare i fatti, di adattarli a chi ascolta, alle ragioni del narrare. Una storia senza fine, questo rischierebbe di essere ogni vicenda umana. Volendo complicarsi la vita: si potrebbe cercare ispirazione nella solita musa, per rendere il fatto ancora più avvincente, attribuendogli valenza artistica, avendo in mente, magari, l’idea di trarne un soggetto cinematografico, un romanzo, una canzone. Potrebbe anche bastare il lasciare andare un disco, un c.d., se si preferisce. Potrebbe bastare una canzone. A chi non capita? Dato il tema, si potrebbe ricorrere alle voci di Dinah Washington & Max Richter, frammiste al dominio degli archi, che fanno da impressionante e suggestiva matrice del brano “This Bitter Earth / On The Nature Of Daylight”, quello che si può ascoltare sui titoli di coda del film Shutter Island, con Leonardo Di Caprio, diretto da Martin Scorsese. Come sempre l’inglese ti rapisce, quando le voci sanno piegarlo alle esigenze discografiche-commerciali, ma anche a quelle richieste dal bisogno di stare bene, di lasciarsi rapire dalla musica per assurgere a un livello creativo migliore. Guai, però, a tentare di tradurre: si rischierebbe la delusione. La nostra idea è che i brani migliori non sempre sono sorretti da testi o frasi che abbiano davvero senso. O perlomeno: non un valore narrativo pari alle suggestioni che sanno creare quasi per magia semplicemente accostando parole. E, tuttavia, quelle note e quelle parole potrebbero rendere più creativa la voglia di fotografare. Si provi a cantare facendo da controcanto alle voci di quei due e agli archi. È ben diverso l’effetto, non ci sono dubbi. E allora: ricantiamo per qualche secondo e veniamo al dunque. Veniamo al film, preavvertendo che non ci si dovrebbe interessare tanto alla trama, bensì al senso. Quel che appare evidente è: gli esseri umani, tutto sommato, considerati come insieme, non sono monotoni; i cattivi possono anche non essere sempre gli stessi. La violenza alberga dappertutto e in ogni animo, se si preferisce: in ogni coscienza alberga un mostro. Anche nelle anime e nelle coscienze apparentemente candide. È certo anche che: dopo il pluripremiato The Departed, Martin Scorsese ritornò nelle sale con un film, Shutter island, che aveva tutto del thriller. Non mancavano, infatti, le atmosfere cupe e tenebrose. Furono tratte dal romanzo “L’isola della paura”. L’autore è il più volte “visitato” Dennis Lehane: basti ricordare Mystic River di Clint Eastwood, e Gone baby gone, di Ben Affleck.

La trama

Siamo negli Stati Uniti, ovviamente, e si è nel 1954. L’agente di Polizia Federale Teddy Daniels e un nuovo collega sono invitati a Shutter island. Dovranno investigare su una misteriosa sparizione avvenuta in circostanze molto strane dall’orrendo manicomio criminale Aschecliffe. È fuggita una detenuta che si era macchiata di un tremendo delitto: aveva ucciso i suoi piccoli tre figli, annegandoli nel lago. È riuscita a fuggire da una cella chiusa dall’esterno. Inutile sottolineare come non vi fossero altre possibili vie di fuga. Oltretutto: le guardie e gli infermieri di sorveglianza erano così tanti da rendere diabolica la possibilità di fuga. C’è qualcosa che stona. Ciò non sfugge agli agenti. Ben presto inizierà il dramma di Teddy Daniels: incubi spaventosi che fanno da contraltare alla reticenza di psichiatri lugubri e ambigui. Gli altri internati mostrano paura parossistica. Il protagonista comincia a ricordare fatti osservati nei campi di concentramento frequentati da soldato. Emerge dal subconscio anche la sua tragica vicenda familiare. Quando la trama volge al termine, man mano che il cerchio si stringe, ciò che è reale e ciò che non lo è si confondono, deflagrando nella mente di Teddy. È il momento di chiedersi perché si trovi a Shutter Island. Non è lì solo per indagare e da quel luogo non può fuggire.

Questo è il film, sostenuto dalla colonna sonora, e il finale chiarirà ogni cosa. La vita non è un film. Dunque, riponiamo la domanda: la vita non è un film? Verifichiamolo. Italia. Napoli. Posillipo. Pensione “Mascotte”.

È l’alba. Deflagrano cinque colpi di pistola. Il dito che ha premuto il grilletto appartiene a una mano preziosa, azionata da una mente artistica. È la mano di Filippo Cifariello, scultore molfettese di origini, napoletano di adozione e, poi, adottato artisticamente da Roma: uomo e artista che ha saputo assurgere agli onori della cronaca per ben altre ragioni e per chiari meriti artistici. Vittima è Maria de Browne, “canzonettista” narrata anche dall’avvocato Nino Marazzita nella discettazione sapiente dell’omicidio e del processo sulla rivista Eloquenza, numero marzo – aprile del 1967. Si può leggere nella pagina del web del giornale Polizia e Democrazia.

Ritorniamo a Cifariello: è figlio di una vera “fattrice”, con ben diciannove figli sul groppone, e di un padre che, a quanto pare, non gli fece mancare i manrovesci. Infatti, tra un colpo di genio e l’altro, dedicandosi al canto, alla musica, all’argilla cui dare forma artistica per ricavarne santi e pastori, alla direzione artistica di compagnie teatrali di provincia, trova il tempo per “raddrizzare” il figlio, ma anche per dargli lezioni di disegno. Dopo un primo trasferimento a Bari, prendono tutti la direzione di Napoli. E, così come era accaduto a Gian Lorenzo Bernini che si era formato con gli insegnamenti del padre e della Napoli popolare, violenta e scostumata, sottolineate, ovviamente, le giuste proporzioni-dimensioni artistiche, l’ancora ragazzino Filippo, nato il 3 luglio 1864, si forma tra i vicoli e i corpi di amici e popolani napoletani. Frequenta anche il Museo Nazionale e, a 14 anni, è all’Istituto delle Belle Arti. Emerge già la sua capacità di ribellarsi. Oscillando tra spinte all’abbandono scolastico e i gessi, da cui ricava opere premiate con medaglie e danaro, è costretto a dare sostentamento alla famiglia bisognosa. Riesce, tuttavia, a mantenere il suo studio e subisce delusioni cocenti: le sue opere passano inosservate, ma sono invidiate dai colleghi. Nel 1892 partecipa alla grande Esposizione di Roma e il dado si può ritenere tratto. Inizia il successo. È considerato un giovane folle. Neanche la chiamata nell’esercito ferma le sue mani. Sarà pure pazzo, ma ormai può frequentare gente come D’Annunzio, Capuana, Pirandello e andare a Firenze, Parigi, Londra: palestre artistiche assolutamente imperdibili. L’evoluzione non tarderà a evidenziarsi. Tre opere lo documentano: “Ad majorem Dei gloriam”, “Ultimi fiori” e “Cristo e la Maddalena”. Si tratta di due soggetti, un uomo torturato dall’Inquisizione e una giovane ammalata di tisi (flagello dell’epoca), e di un gruppo che testimoniano il livello artistico indiscutibile. La prima opera, presentata il 1889 alla grande Esposizione di Roma, subisce critiche da Napoli. Gli rifiutano il diploma d’onore e il premio di diecimila lire, giacché la statua è “solo” un calco. Si riscatterà, grazie alla stessa opera, tre anni dopo alla Mostra di Barcellona conseguendo il Gran Diploma d’onore e la vendita dell’opera alla Galleria d’Arte Moderna. Giungono i suoi 31 anni. È noto come Gattonero. È sposo di Maria de Browne, nota come Blanche de Mercy, di Lione. La sua natura di geloso e possessivo inizia a mostrarsi. Pare che la sua ira monti sempre più venendo a conoscenza di particolari sconcertanti: la moglie giunge anche a chiedere tremila lire per farsi vedere nuda dai corteggiatori. L’alternarsi di scenate, pianti, riavvicinamenti focosi, fa lievitare la rabbia dell’artista. Dopo una serata trascorsa nel lusso della pensione Mascotte, in compagnia di Giuseppe Re David, sindaco di Bari, alle 5 e mezza del mattino, la tragedia si compie. È documentata da due fori di proiettile sul petto della donna. Dopo dodici anni di vita insieme pare che sia giunta la fine di tutto, anche dell’artista Cifariello. Non sarà così: dal processo emergerà una verità processuale che non lo danneggia. È dichiarato incapace di intendere e di volere, quindi assolto. La chiave di volta della nuova vita artistica, ancora possibile, è rappresentata dal passato. Infatti, la ricostruzione dell’inferno che avrebbe vissuto accanto a una donna che si sarebbe dimostrata tanto seducente quanto infedele lo ha motivato. Egli ha ucciso, ma lo ha fatto per troppo amore frustrato. Al di là della verità processuale e degli aspetti giuridici, si può opinare che l’assoluzione suoni come una specie di perdono concesso a un uomo che ne aveva subite troppe. L’uxoricidio è alle spalle. E lui si fa uno e trino: si divide fra più studi; deambula continuamente spostandosi tra Parigi, Berlino, Monaco, Vienna. Qualcuno, intanto, cerca di ostacolarne i progetti. Vorrebbe realizzare dei monumenti a Giovanni Bovio a Trani, e Giuseppe Verdi San Francisco, i cui bozzetti hanno vinto i relativi concorsi. Non cede. Concentra l’attività in tre “soli” studi a Napoli, Parigi e Vienna. Finirà per abbandonarne due, rifugiandosi in quello bellissimo di Napoli, al Vomero. Dopo aver realizzato moltissime altre opere, tra cui anche una effigie in argento di Enrico Caruso, muore il 5 aprile 1936, a Napoli, dove il suo dramma si concluse senza, tuttavia, lasciare vere tracce nella coscienza dell’artista. La domanda finale: la vita è o no più avvincente e sorprendente di un film?

Alessia Orlando e
Michela Orlando

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