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Fotografare per ricordare Napoli

“Silenzio, dove porti
il tuo vetro appannato
di sorrisi, di parole
e di pianti dell’albero?
Come pulisci, silenzio,
la rugiada del canto
e le macchie sonore
che i mari lontani
lasciano sul bianco
sereno del tuo velo?”
(…) da ‘Elegia del silenzio’ di Federico Garcia Lorca

FOTOGRAFARE PER RICORDARE NAPOLI E FEDERICO GARCIA LORCA

Se ti fermi in un vicolo dei Quartieri Spagnoli di Napoli e la luce di certe ore del giorno ti colpisce, potrai dimenticare che hai con te la fotocamera. Quel genere di fascinazione ti potrà cogliere negli scavi di Ercolano o a Pompei, così come nella Reggia di Caserta o tra le colonne dei templi di Paestum, a Ischia o a Capri così come a Positano o a Palinuro, in un museo a cielo aperto come in uno relegato nelle stanze di un palazzo. Potrà accadere anche altrove, in altri Paesi ed è positivo. D’altronde, se quello straniamento da troppa bellezza ti coglie in un Paese che non sia il tuo, ti darà comunque modo di chiarirti le idee, di pensare a quanto si possa essere sciocchi nel dare rilevanza ai confini, invece che alla sostanza delle cose. Un monumento o un vicolo ben tenuti, siano essi a Napoli o a Barcellona, avranno la forza di spiegarti che così dovrebbe essere il mondo, oggi: ben curato e a misura d’uomo. La cura dell’ambiente, va da sé, così come l’abbattimento delle barriere architettoniche, non significa certo isterilirlo. Si tratta di godibilità, cui si deve ambire anche per riconquistare elementi di identità radicati nelle origini, che fanno sentire l’appartenenza ma non escludono gli altri, essendo rilevanti per l’umanità. Prenderne coscienza significa aprirsi in maniera ampia alle esperienze che si potranno maturare dappertutto. Vai in un luogo, ci vivi per il tempo che ritieni utile, te ne appropri e ti pare di poter ragionare sul contenitore più ampio che è lo Stato in cui ti trovi e, quindi, trai conclusioni sulle condizioni di Madre Terra. Accade lo stesso se leggi le parole di una sola pagina di una opera teatrale, aperta a caso. Non occorrerà, a esempio, uno studio profondo su Yerma di Federico García Lorca, noto canto rurale poetico, per capirne il clima. Da quelle poche righe si potrà capire anche che una sola parola può gettare luce sul resto delle pagine. Esse, le parole, risultano capaci di annunciare i personaggi come se il protagonista, ben prima del loro ingresso in scena, ne vedesse la fotografia. È possibile immaginare anche l’atmosfera in cui si muove la protagonista, attraverso la potenza di poche parole, così come si potrà entrare dentro la sua carne per capirne i desideri, i sogni, il suo modo di percepire il mondo. Se hai fortuna, puoi capitare in una pagina che ti farà capire quanto per la protagonista sia ossessiva la voglia di avere un figlio, che fa coincidere con il diventare donna, giacché tutte le altre attorno a lei, sposate, ne hanno. È da qui, da questo desiderio, che si innesta la spirale che la porta in un mondo fatto di cose proibite e di luoghi insicuri, dove perdersi. Si entra, per questa strada, nella tragedia che si può avvertire già solo ragionando sul nome della protagonista: Yerma. Significa, in Spagnolo, Deserto ma anche Sterile. Ciò potrebbe essere fuorviante giacché nella vicenda narrativa sterile risulterà essere il marito, Juan. Il contesto non consente di immaginare una maternità conseguita con l’intervento di altri maschi. Yerma si potrà liberare del problema solo in maniera decisa: uccidendo il marito…

L’epilogo, per molti versi, espone una durezza che ricollega alla vita stessa di Federico Garcia Lorca e alla sua fine. Siamo nell’epoca in cui scoppia la Guerra civile spagnola. Lorca, proveniente da Cuba, ritorna in Spagna. È a Madrid e si reca a Granada per incontrare il padre. Viene arrestato con suo cognato, sindaco socialista di Granada, mentre si trovano a casa dei Rosales. È il 19 agosto 1936 ed è ammazzato solo perché omosessuale e di sinistra. Fu buttato in una tomba, senza nome, a Fuente Grande de Alfacar, dai militanti del movimento politico Ceda (Confederazione Spagnola delle destre Autonome).

Così, nel tempo del rapimento della luce a Napoli o altrove, con poche parole puoi scendere nelle profondità di un dramma narrativo o di vita reale. Lentamente rientri in te stessa e riassumi la consapevolezza che vorresti fotografare quei luoghi. Qualcuno ti sfiora; si muove più velocemente di te. Poi osservi la schiena. È una sconosciuta. Scompare in un battibaleno ma resta il suo ambiente. Conviene, a questo punto, che qualcun altro appaia in scena, che si sieda, per farsi fotografare? Accade. Non saprai più se riprendere la figura o l’ambiente ma qualsiasi cosa verrà fuori potrà in futuro aiutare il tuo ricordo.

Alessia Orlando e
Michela Orlando

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