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Il giudice e la picciriddra: 26 Luglio anniversario di morte di Rita Atria

Roma, Quartiere Tuscolano.
In una palazzina rosa di Viale Amelia c’è una finestra aperta al penultimo piano.
Fa proprio caldo e l’unico rumore che si sente è il ronzio delle pale di enormi ventilatori. Rita, una ragazzina di 18 anni, sta studiando per gli esami di maturità.

Sotto i libri il suo diario pieno zeppo di intime confessioni e di vari pensieri.
Si alza spesso dalla sua scrivania, non riesce a concentrarsi e così guarda nervosamente dalla finestra i tetti delle case di fronte.
Ogni tanto scende giù una lacrima, si asciuga il suo bellissimo viso con un fazzoletto di carta e torna a studiare.
È l’estate del 1992, fa sempre più caldo e Rita si è sdraiata sul letto.
Non si trova bene in questa grande città. Che ci fa una picciridda a Roma, una picciridda che non si era mai mossa dalla sua Partanna? Non si trova bene neanche in quella casa accogliente in viale Amelia perché non è sua.
Le è stata affidata dal ministero dell’Interno in attesa del processo.

Vorrebbe abbracciare la madre, ma lei è rimasta in Sicilia.
Vorrebbe abbracciare il suo nuovo ragazzo, ma al momento non c’è.
Non c’è nemmeno Piera, la cognata anche lei di Partanna, con la quale divide l’appartamento romano.

Passano tante albe e tanti tramonti e arrivano puntuali anche gli esami di maturità. Non è poi tanto nervosa e il giorno del tema sceglie velocemente la traccia: “la morte del giudice Falcone ha riportato ad attualità il tema della mafia.”

I suoi occhi fissano la parola mafia. In fondo questo argomento lo conosce bene, potrebbe scrivere decine di pagine su quello che ha vissuto a Partanna in casa sua.
Proprio lì ha conosciuto la mafia, proprio tra quelle mura, quando vedeva suo padre e suo fratello e si intratteneva con il fidanzato.

Il padre di Rita faceva il paciere a Partanna. Si chiamava Don Vito Atria, ufficialmente pastore di mestiere, ma era un uomo che si occupava di qualsiasi problema.
Per tutti trovava soluzioni e fra tutti, metteva pace. Anche suo fratello Nicola faceva parte di Cosa Nostra e il fidanzato Calogero stava diventando anche lui un picciotto.

A Partanna, così come ad Alcamo e nell’intera provincia, erano però scoppiate le guerre di mafia. I sanguinari corleonesi volevano in tutti i mandamenti solo uomini fidati e stavano cercando di spazzare via tutte le vecchie famiglie.
A contendersi la Valle del Belice ce n’erano due: gli Ingolia e i Cannata. Quest’ultimi però erano molto più potenti e con l’aiuto dei Corleonesi, in piena ascesa in tutta la Sicilia, stavano vincendo la guerra di mafia a via di omicidi e agguati.

Saranno decine e decine i morti in quella città tra il 1987 e il 1991. Tra questi anche il paciere di Partanna Don Vito Atria, il papà di Rita, ucciso due giorni dopo il matrimonio del figlio Nicola con Piera Aiello.
Nicola era nervoso in quei giorni. Voleva vendicarsi, costi quello che costi. Rita, distrutta, riversava tutto il suo affetto e la sua devozione verso di lui.
Nicola così le parlava delle persone coinvolte nell’omicidio del padre, del movente, di chi comanda in paese, delle gerarchie, di chi tira le fila. Rita era solo una ragazzina di diciassette anni ma stava diventando custode di segreti più grandi di lei.

Nicola però non fa in tempo a vendicarsi perché anche lui verrà ucciso il 24 giugno 1991. Sua moglie, Piera Aiello, però inizierà presto a collaborare con la giustizia e farà arrestare tantissime persone. Calogero invece ripudia il fidanzamento con Rita, perché ormai lei è parente di Piera, una schifosa collaboratrice di giustizia. Rita ormai non ha più nessuno, resta sola.

Non si vuole però arrendere come ha fatto sua madre. Condividendo tutto quello che stava facendo la cognata, decide che deve darsi da fare anche lei. Non può più tollerare i silenzi omertosi della mamma. “Io sono solo una ragazzina che vuole fare giustizia” scrive nel suo diario mentre i mafiosi di Partanna continuano ad uccidersi nelle strade del paese. Il 5 novembre del 1991 Rita esce di casa. Invece di andare a scuola va dritta nell’ufficio di Paolo Borsellino, allora procuratore a Marsala. ” Mi chiamo Rita Atria e mi presento alla signoria vostra per fornire notizie e circostanze legate alla morte di mio fratello e all’uccisione di mio padre” dice emozionata al giudice.

Borsellino inizia ad ascoltarla attentamente. Rita parla e tantissime persone finiscono in manette. In paese tutti ora la odiano e anche la madre non ne vuole più sapere di quella figlia che parla con gli sbirri. Borsellino sempre più preoccupato per le sorti della picciridda le dice chiaramente: “Piglia una cartina dell’Italia, taglia il triangolino della Sicilia e buttalo via per sempre. La Sicilia la devi dimenticare!”

Rita così ora vive a Roma. Pensa continuamente a Paolo Borsellino dedicandogli tante pagine del suo diario. Anche il giudice ormai la considera come una figlia e fa di tutto per andarla a trovare a Roma. In quei famosi 57 giorni dalla morte di Falcone, Borsellino va due volte a Roma a trovarla. “Chissà come sta la picciriddda?” si chiedeva ogni qual volta i mass media davano brutte notizie.

Il 19 luglio del 1992 purtroppo anche Borsellino salta in aria. Rita apprende la notizia dalla televisione. È crollato il suo mondo. Lo “zio Paolo” non ci sarà più a difenderla da tutto e tutti. Scrive nel suo diario: “Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita”.

È passata una settimana dalla strage di Via d’Amelio e a casa di Rita non c’è nessuno. È sola. Osserva con le lacrime agli occhi la luce proveniente dalla finestra e si avvicina a piccoli passi. Dopo pochi attimi si butta giù. È il 26 luglio 1992. Il suo corpo verrà trovato sul selciato sotto quella finestra al penultimo piano di viale Amelia. La caduta l’ha uccisa.

Qualche tempo dopo i funerali, la madre ha preso un martello e ha fracassato senza pietà la lapide sulla tomba della figlia. Eccola la mafia, quel cancro così letale che distrugge anche il rapporto speciale tra madre e figlia.

Fonte: www.telejato.globalist.it 

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