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CESARE DEVE MORIRE

CESARE DEVE MORIRE”. Nella zona di Massima Sicurezza del carcere di Rebibbia un gruppo di detenuti mette in scena il “Giulio Cesare” di Shakespeare. Il film (ITA, 12), vincitore al Berlino Fest, è diretto da Paolo (81a) e Vittorio (83a)Taviani: questi due “giovinotti” alla splendida loro età ci hanno dato un capolavoro. E’ stata un’operazione complessa: Fabio Cavalli, regista teatrale, da tempo mette in scena pièces teatrali aventi come attori detenuti. E’ un’esperienza di grande coinvolgimento emotivo, considerata uno dei pochi strumenti di elevazione e di umanizzazione culturale realizzata nei circuiti concentrazionari del carcere. Con assoluta umiltà i due maestri si sono messi a “servizio” di quest’esperienza; ne hanno colto le numerose preesistenti dirompenti componenti umane; ne hanno esaltato le valenze gestuali, adattandole, da una parte, ai loro vissuti (il testo teatrale è reso nei vari dialetti di provenienza degli attori); dall’altra, così facendo hanno favorito un’immissione in quelle parole di un’energia e una potenza evocativa che impressionano. Il risultato è uno spettacolo coinvolgente al massimo grado, in cui l’eterna ricchezza dell’arte shakespeariana ci giunge ai cuori e ci resta. Ci scordiamo delle”cancelle”: anzi le poniamo nel disegno visuale del film come un’enfasi della capacità liberatrice della Parola che diventa arte, cioè libertà. In questo senso la foto di Roberto Perpignani svolge un ruolo di sontuosa povertà. Gli autori non fanno sconti a quelli, che restano criminali; né essi sono “redenti”: ma sono sfiorati dall’arte. Avvertono, come dice il Cassio, solo ora, dopo lo spettacolo che “grazie all’arte la loro cella è diventata un carcere”

Ciccio Capozzi  

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