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Scuola nella crisi. Crisi della scuola. Scuola in crisi.

Prima di qualsiasi considerazione, mi sia consentito porre alcune premesse.
Personalmente non penso di appartenere a quella, per fortuna limitata, categoria che sul posto di lavoro sono definiti lavativi o imboscati. Senza presunzione e senza, però, falsa modestia sono un professore con più di una laurea che ha svolto e svolge svariati incarichi pubblici, professionali ed ecclesiali. Tra saggi specialistici, articoli, recensioni, editoriali, ecc., conto al mio attivo un centinaio di pubblicazioni. In 35 anni di insegnamento ho partecipato a vario titolo (da semplice uditore a relatore) ad oltre 50 tra corsi di formazione, di aggiornamento e seminari, mentre ho perso il conto dei convegni ai quali ho partecipato e delle conferenze tenute. Nel corso poi della ormai mia lunga carriera, ho sempre svolto incarichi di responsabilità nella scuola, quasi sempre senza alcun tipo di compenso, se non la stima dei colleghi, del dirigente, delle famiglie e l’affetto della maggior parte degli alunni. Tra l’altro sono uno di quelli che ritiene che la dignità e la competenza non abbiano prezzo e che non si possono acquistare con la vile moneta, erogata tra l’altro puntualmente in ritardo e prontamente recuperata dall’erario con gli interessi tramite una puntualissima tassazione alla fonte e alla foce, cosicché quello che ti danno con la sinistra se lo riprendono con la destra e viceversa (ogni allusione politica non è affatto casuale).
Tengo comunque a precisare che la mia disponibilità a titolo gratuito non nasce da un retorico senso del dovere verso uno Stato nel quale mi è sempre più difficile identificarmi e che, anzi, sento spesso lontano, se non addirittura ostile, bensì per puro spirito missionario, di carità cristiana attiva e testimoniante (non pelosa) teso a formare una coscienza critica e solidale nei miei alunni. Se così non fosse, con tutte le frustrazioni che i docenti subiscono si aprirebbero solo baratri di disperazione. Perciò, riguardo alla cosiddetta meritocrazia, il governo se la vada pure a mettere in quel posto dove la sua competenza riterrà più opportuno. I meriti che mi sento di rivendicare sono solo nei confronti del mio Dio, del mio prossimo e della mia coscienza.
Una seconda premessa mi sembra pure indispensabile. La crisi della scuola si inserisce in una crisi ben più ampia, anzi globale, che investe tutta la società. Di conseguenza, una riflessione seria sulla scuola non può essere autoreferenziale e prescindere da un’analisi complessiva della realtà che ci circonda.
Partiamo, quindi, dalla constatazione che è ormai palese come la globalizzazione si è rivelata un’onnimercantizzazione di uomini e cose attraverso la dittatura e “l’imperialismo internazionale del denaro” di una finanza criminale sotto la copertura dell’impersonalità dei mercati e con la complicità di una politica venduta e sottomessa.
Un ministro qualche anno fa disse che la globalizzazione non è un pranzo di gala, ma dimenticò di completare la frase che era una parafrasi di un pensiero di Mao Tse Tung riferito alla rivoluzione che, appunto, “non è un pranzo di gala né un salotto letterario, ma un atto di violenza”, ed io mi chiedo: fino a quando i popoli subiranno la violenza della globalizzazione senza reagire? E in che modo reagiranno, dal momento che coloro che rendono impossibile una rivoluzione pacifica e non violenta rendono inevitabile quella violenta? Anche il Vangelo ci ricorda che chi di spada ferisce di spada perisce e che esiste un principio morale di legittima difesa, non solo a livello personale ma anche collettivo, ed oggi nella società capitalistica c’è un aggressore ingiusto permanente formato da diversi soggetti economici, finanziari e politici che esercitano “una tirannia evidente e prolungata che attenta gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuoce in modo pericoloso al bene comune”.
La globalizzazione sempre più si configura come atto di violenza che genera milioni di emarginati nel mondo: i popoli crocifissi dell’emisfero Sud ma anche gli ultimi e penultimi del Nord non più così opulento. La violenza della globalizzazione sta investendo sempre più ampi strati della popolazione che già vivono ai limiti di una dignitosa povertà: famiglie monoreddito e in affitto, giovani senza prospettive di un lavoro stabile e senza la possibilità di creare una famiglia degna di questo nome. Di fronte a questa ingiusta e permanente aggressione esiste il diritto e anche il dovere morale e politico di difendersi ed impegnarsi per una trasformazione radicale, un mondo migliore e più giusto, una società nuova e una reale umanizzazione dell’uomo.
Il bello, o meglio il tragico, è che tutto il movimento di globalizzazione è presentato come emancipazione, sviluppo e progresso: la precarietà è travestita da flessibilità, il diritto al lavoro diventa diritto ad essere sfruttati, l’impossibilità a costruirsi una famiglia si esalta come “libera” convivenza, lo sfruttamento di manodopera sottopagata e senza diritti in paesi di “dubbia democrazia” è definita delocalizzazione, l’edonistico piacere di un attimo spacciato per vera felicità e il momentaneo scoppio di allegria come vera gioia.
Se il Quarto Stato, ben raffigurato nel famoso quadro di Giuseppe Pellizza da Volpedo, era il proletariato e il sottoproletariato che, come da etimologia, non aveva altra ricchezza che la prole, i figli, ora possiamo parlare di Quinto o addirittura Sesto Stato, formato da chi non si può permettere nemmeno il lusso di una famiglia e di procreare figli: lavoratori precari, nuovi emigranti, forzati del lavoro sottopagato, giovani disoccupati, precari a vita, intellettuali a spasso, emarginati, scoraggiati e quanti hanno ormai rinunciato perfino a cercare un lavoro; e senza nemmeno il conforto di una coscienza di classe, intorno alla quale coagulare azioni di lotta, o di un partito guida o di un’avanguardia d’attacco o di intellettuali organici per organizzare o almeno sognare una rivoluzione.
Se poi diamo uno sguardo alla politica e ai politici italiani, possiamo costatare che risultano inquinati alle sorgenti dal machiavellismo del fine che giustifica i mezzi e dal guicciardinismo della cura del particulare che, generando il divorzio totale tra etica e politica, degradano l’intelligenza a furbizia, la strategia a tatticismo e la ricerca del consenso a manipolazione delle masse. Questa tara ereditaria, di origine rinascimentale, si è andata sempre più accentuando nei secoli seguenti (Franza o Spagna purché se magna) e tocca il suo culmine a partire dalla cosiddetta unità d’Italia, dalla politica del connubio di Cavour con Rattazzi, al trasformismo di De Pretis, dall’opportunismo giolittiano all’istrionismo mussoliniano e si è drammaticamente riproposto e aggravato fino ai giorni nostri con la degenerazione clientelare galoppante, il consociativismo, il craxismo, il celodurismo, il berlusconismo e, last but not least (ultimo ma non per ultimo), il renzismo.
Siamo così arrivati ad una sinistra oscena e d’accatto con una politica sinistra di sinistri sinistrati non diversa e non migliore di una destra stupida e becera destreggiantesi tra populismo e luoghi comuni di bassa lega (in tutti i sensi). Ad ogni livello si può constatare come, troppo spesso, ci troviamo in mano ad una massa di politici e burocrati imprevidenti, incapaci, incompetenti, ignoranti, insipienti, infingardi, inetti, inefficienti e imbroglioni.
A ciò aggiungiamo il grande male, la vera catastrofe costituita dalla disgregazione, se non proprio completa dissoluzione, della famiglia. Genitori in balìa di un filiarcato tirannico dove ai figli si ritiene di dover dare tutto e subito, qui ed ora, che tendono sempre e comunque a “proteggere” e “giustificare” tutti i loro errori, per non ammettere finalmente e una volta per tutte la propria impotenza e il proprio fallimento educativo.
Una famiglia e una società in putrefazione, uno stato sociale che si tende progressivamente a smantellare e con una classe politica da basso impero, corrotta, corruttrice e corruttibile, totalmente sottomessa agli ordini dei potentati economici e alle forze impersonali della finanza internazionale.
La politica scolastica, notte oscura in cui tutte le vacche sono nere e forse solo per divina illuminazione ci si può capire qualcosa, è il più lampante esempio di quanto sopra. Dal 2000 ad oggi, partendo dal ministro Berlinguer e passando per De Mauro, Moratti, Fioroni, Gelmini, Carozza, Profumo (spero di averli elencati tutti) fino a Giannini, si è operato un progressivo smantellamento delle fondamenta educative per costruire una scuola-castello di sabbia e di carta: castello di sabbia fatto di inconsistenza educativa, astrazione dell’istruzione e inefficienza della formazione; castello di carta fatto di demagogia e burocrazia farraginosa, elefantiaca e mortificante. Peccato che i grandi soloni della politica, insieme ai pedagogisti loro manutengoli, non si sono mai realmente sporcati di gesso in una scuola di prima linea, in classi sovraffollate con alunni handicappati, dichiarati e non, disadattati sociali e caratteriali che vengono ora travestiti con il nome di BES (bisogni educativi speciali; ma chi è che non li ha questi bisogni, compreso famiglie e pure docenti sull’orlo di una crisi di nervi?) .
Il linguaggio può sembrare crudo, ma non sopporto più il politically correct, ossia quel linguaggio ipocrita tipico regno dell’eufemismo per dire che il male non esiste camuffandolo dietro vuote parole e neologismi che diventano solo una presa per… i fondelli. Un solo esempio per tutti: il diversamente abile è veramente tale se gli si offre realmente la possibilità di superare i suoi limiti e valorizzare le sue capacità, altrimenti l’handicap, cioè l’ostacolo e la difficoltà, rimane anche se gli cambiamo il nome; peccato che ottenere il riconoscimento del sostegno a scuola è diventato oggi un’impresa titanica (e anche costosa), perché bisogna tagliare le spese e fare cassa, e gli organi competenti, novelli taumaturghi, fanno parlare i muti, vedere i ciechi, ricostruiscono i neuroni e tra poco diventeranno anche esorcisti o stregoni, pur di non riconoscere la disabilità.
Intanto la riforma in atto, tra le altre cose, prende anche il linguaggio a prestito dal bassofondo comune europeo con il pidgin english dei neoliberisti e dei digitalisti per la solita presa per… i fondelli così come, nei Promessi Sposi di Manzoni, don Abbondio tentò di fare con Renzo Tramaglino servendosi del latinorum. Mi sia consentito questo richiamo e omaggio alla cultura umanistica che, con questa riforma, è destinata ormai a sparire insieme alla formazione di una intelligenza attenta e di una coscienza critica.
Indubbiamente il discorso diventa complesso, e ci vorrebbe un saggio scientifico ben più ampio che un pamplhet, e allora cercherò di enucleare una serie di problematiche che ci permettano di cogliere come si stia pervenendo allo smantellamento delle conquiste dello stato sociale e della cultura per sottoporre la società alla dittatura dei Mercati e alle dure leggi della tecnocrazia finanziaria.
Con la riduzione di ogni attività umana ad attività economica aziendale in un quadro di competitività globale finalizzata al profitto fine a se stesso, la scuola viene chiamata a formare l’individuo competitivo, adattabile e manipolabile. Si parla in effetti di scuola azienda con il preside manager, grottescamente chiamato leader educativo, per formare un nuovo tipo di alunno che Fabio Bentivoglio definisce Figli del Mercato come replica moderna dei Figli della Lupa di epoca fascista.
Giovani apparentemente super competitivi che dovrebbero essere disposti a farsi sfruttare e a rinunciare ai propri diritti in una società, definita dal sociologo Zygmunt Bauman, liquida dove ciò che a livello tecnico si impara la mattina diventa obsoleto la sera in un contesto di competizione spietata in cui non esistono mai meriti sufficienti a garantire stabilità per il futuro, generando conflitti, nevrosi depressive da ansia di prestazione, stress crescente, isolamento, paura, confusione, sofferenze e, infine, vera e propria disperazione. Inoltre, le possibilità di lavoro sono una pia illusione in un sistema che tende a delocalizzare, spazzare via tutele e diritti per imporre condizioni di lavoro e salari indecenti in una corsa al ribasso che determina un trasferimento di ricchezza soltanto dal basso verso l’alto. Allora mi sento di condividere in pieno la riflessione di Bentivoglio : “Una scuola che educa al lavoro (quale??) è una scuola che non educa alla cittadinanza, alla consapevolezza dei propri diritti e che esclude dalla partecipazione alla vita politica. Quindi non è scuola”. Aggiungiamo a tutto ciò l’ampia discrezionalità che si vuole affidare ai dirigenti scolastici cui si connette in pratica l’abolizione della titolarità della cattedra e della stessa libertà d’insegnamento garantita dalla Costituzione, l’azione tesa a desindacalizzare la scuola insieme a tutti gli altri settori, la guerra tra poveri generata dalla concorrenza tra le scuole e da un’idea di valorizzazione delle eccellenze che in realtà è solo il tentativo di misurare la qualità del sistema su punte isolate senza tener conto della professionalità e preparazione della maggioranza dei docenti, la non celata intenzione di creare un sistema premiale e gerarchico invece che cooperativo e solidale; tutta un’ampia materia poi sarà delegata al governo che attraverso decreti e de-cretini dovrà riempire i buchi neri della cosiddetta riforma. Inoltre, l’inesistenza di un vero e serio dibattito pedagogico, sociologico e didattico la si camuffa sotto l’orgia delle chiacchiere sulla scuola azienda, le azioni manageriali e sinergiche, le competenze, le eccellenze, la meritocrazia, la competitività, i bonus, i benefit, la qualità, ecc.
Spero che con i residui di autonomia a disposizione i docenti, ma anche i dirigenti, gli ATA, le famiglie e gli studenti si oppongano allo scempio, riflettano e agiscano insieme; mi auguro che nei piani dell’offerta formativa non si introducano, anzi si eliminino, progetti, ma anche riferimenti linguistici e concettuali, che rimandino ad una scuola prona ai mercati, alla finanza e alla politica a questi asservita. Forse, mai come ora nomina sunt consequentia rerum e rifiutare anche i compromessi sul piano linguistico esprime il dissenso verso una pretesa riforma imposta dall’alto, non discussa e non condivisa. Di conseguenza, alle parole oggi in voga come meritocrazia, competizione-competitività-consumismo dobbiamo contrapporre altre parole, come collaborazione, cooperazione, corresponsabilità, comunicazione, comunione, comunità, complementarietà, convivialità… e coniugare nuovi verbi: essere invece di avere e apparire, ascoltare invece di distrarsi, donare invece di pretendere, accettare invece di imporre, pazientare invece di smaniare, capire invece di giudicare, cooperare invece di competere, agire invece di agitarsi…
Ai nostri governanti, con S. Agostino mi permetto di ricordare quanto segue: « Se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli Stati se non delle grandi bande di ladri? Perché anche le bande dei briganti che cosa sono se non dei piccoli Stati? È pur sempre un gruppo di individui che è retto dal comando di un capo, è vincolato da un patto sociale e il bottino si divide secondo la legge della convenzione. Se la banda malvagia aumenta con l’aggiungersi di uomini perversi tanto che possiede territori, stabilisce residenze, occupa città, sottomette popoli, assume più apertamente il nome di Stato che gli è accordato ormai nella realtà dei fatti non dalla diminuzione dell’ambizione di possedere ma da una maggiore sicurezza nell’impunità. Con finezza e verità a un tempo rispose in questo senso ad Alessandro il Grande un pirata catturato. Il re gli chiese che idea gli era venuta in testa per infestare il mare. E quegli con franca spavalderia: “La stessa che a te per infestare il mondo intero; ma io sono considerato un pirata perché lo faccio con un piccolo naviglio, tu un condottiero perché lo fai con una grande flotta”» . Inoltre, scrive Don Primo Mazzolari: “Quando l’autorità non risponde più al suo scopo che è il bene comune, ma vi agisce contro, ho il diritto della rivolta come verso chi usurpa un diritto”.
Per concludere, infine, in stile goliardico e confortato da don Lorenzo Milani, il quale diceva che una parolaccia quando ci vuole va detta, non una volta di più né una volta di meno, riassumo sinteticamente e icasticamente l’invito che, comunque rispettosamente e sine ira ac studio , mi sento di rivolgere alla riforma e ai suoi fautori con una citazione di Fausto Brizzi: “Un vaf…o scagliato al momento opportuno e accompagnato da un sapiente movimento della mano (rafforzato magari da un tiè e dal gesto dell’ombrello N.d.R.) scarica l’aggressività repressa favorendo così la non violenza. Peccato che sia ritenuto volgare, davvero una sventura, visto che si tratta della parola più tradotta e utilizzata nel mondo a partire dalla metà del secolo scorso. Una fondamentale invenzione del Novecento di un letterato rimasto, purtroppo, anonimo” .

Con tutti i sentimenti… Prof. Francesco Accardo

 

 

 

 

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