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Room, ‘Solo il cuore del bimbo che è in noi ricompone gli strazi e gli orrori’

“ROOM”. Ma’ rapita e prigioniera in un bugigattolo da ben 7 anni, dal suo rapitore ha avuto un figlio, Jack. La libertà è solo una parte del loro futuro. E’ un film (IRL-CAN, 15)  sceneggiato dalla stessa autrice E.Donoghue, irlandese, naturalizzata candese, del romanzo da cui è tratto.  E ha scelto il regista, l’irlandese Lenny Abrahamson, in chiave volutamente “europea”. Per lui  la prigione è come la caverna platonica: allegoria della comprensione del mondo, che avviene distorta e parziale, poiché lo vediamo dal fondo. E qui è la televisione, l’unica apertura  sul reale. Il bambino crede che esso sia solo lì dentro, in cui è riuscito a trovare una sua intima, giusta collocazione, e il “fuori” un incomprensibile incantesimo. La madre lo incoraggia, utilizzando la mentalità magica di quell’età, come il Benigni di “La vita è bella”. E il miracolo del film è che il punto di vista è quello del bambino. La madre è molto presente: la sua intensità è però filtrata dal bambino. Lei crea un equilibrio con grande fatica: che poi va in frantumi. L’attrice Brie Larson ha vinto l’Oscar 16 come miglior attrice. Il “dopo” vede  altri personaggi. In cui  il rapitore non c’è più: per il bimbo è stato solo un Orco Nero, dai profili mostruosi, incerti e lontani. La nonna, grazie all’affetto, con tatto e delicatezza, ricompone  l’identità di Jack. Nella prigione lo scenografo crea una dimensione intima, in cui i singoli oggetti sono vissuti da lui come persone animate. Però non manca l’angoscia: quel lucernaio in alto è un’idea grafica forte. Ed è struggente lo sguardo, grazie al montaggio, tra l’attonito e l’incantato, con cui guarda per la prima volta nella sua vita gli oggetti del mondo reale. Mentre la visita finale al capanno, ora sporco, angusto e  tetro, rappresenta il credibile superamento del dramma.

Francesco Capozzi

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