Ho visto Foxcatcher. Sono andata al cinema, ho pagato il biglietto e l’ho visto, ma non mi è piaciuto. Ovviamente può capitare, ma questa volta l’insoddisfazione mi ha intristito parecchio. Avevo sentito davvero tanto parlare (e molto bene) di questo film, nominato a cinque Oscar ma grande perdente della serata, e dopo aver visto la pellicola devo ammettere che purtroppo non tutte le lodi erano, a mio parere, fondate. Non mi riferisco sicuramente all’interpretazione di Steve Carell, che confermo essere un’inaspettata rivelazione drammatica, così come a quella del resto del cast (Channing Tatum e Mark Ruffalo in particolare), ma da soli gli attori non bastano a reggere la riuscita complessiva del prodotto.
L’aspetto che più mi ha deluso del film è la sceneggiatura, tra l’altro oggetto di una delle candidature dell’Academy, fatto che ho scoperto solo dopo aver visto Foxcatcher e che mi ha lasciato fortemente interdetta. Davvero? Questa sceneggiatura? C’è qualcosa che non va. Anzi, più di qualcosa. La caratterizzazione dei personaggi è praticamente nulla: la loro evoluzione è così lenta che diventa davvero ineccepibile. Quelli che vorrebbero essere presentati come uomini in crescita risultano invece essere piatti e mossi da istinti irrazionali. Le loro indoli sono a tratti infantili, con accenni alla competizione tra fratelli e il rapporto madre-figlio, e si perdono completamente nella scorretta costruzione dei profili psicologici.
Chi ci rimette maggiormente da questa sommarietà nella scrittura dei personaggi è John du Pont, che sarebbe potuto risultare forte e d’impatto, addirittura sconvolgente, se la sceneggiatura avesse maggiormente posto l’attenzione sulla sua necessità di indipendenza dalla madre e i deliri di onnipotenza. L’acquisto di armi e addirittura veicoli da combattimento è un aspetto che diventa marginale, così come viene presentato. Se ben sfruttato, invece, sarebbe potuto diventare il simbolo perfetto della sete di potere e conquista di du Pont, un uomo che non accetta rifiuti.
Perché non riesco a provare pena, disgusto o checché nei confronti dell’inquietante John, anche se così magistralmente interpretato? Semplice, perché non so nulla di lui, perché le sue azioni e i suoi gesti sono improvvisi e immotivati e con queste stesse parole può essere descritto il rapporto dello spettatore con qualunque altro personaggio del film. Inoltre, cosa provoca in lui l’allontanamento da Dave, che prima aveva così fortemente voluto? Perché quella violenza? Potrebbe essere stata generata dalla gelosia nei confronti del minore dei fratelli e molti atteggiamenti lasciano intendere che le attenzioni rivoltegli siano di natura sessuale. Eppure questa interpretazione è stata smentita dallo stesso lottatore protagonista della storia, realmente esistente. Quindi, un altro aspetto potenzialmente efficace ma nei fatti presentato in maniera del tutto confusa.
Il protagonista, Mark Schultz, pare soffrire di una sorta di complesso di inferiorità rispetto al fratello. Dico ‘pare’ perché il loro rapporto è in realtà poco chiaro: c’è prima affetto, protezione, poi distacco, rancore e non si capisce il perché. Dave, d’altra parte, non è esente da contraddizioni. Non sono noti i motivi per cui accetti improvvisamente di diventare parte del team Foxcatcher, dopo aver rifiutato l’idea per più della metà della pellicola. Anche se il maggiore dei lottatori Schultz, perlomeno, pare essere emotivamente coerente nella sua staticità, seppur autore di scelte non meglio giustificate. Mark, invece, appare come un personaggio profondamente infantile, evidentemente ingenuo e facilmente influenzabile.
In una sola scena il protagonista esprime chiaramente l’invidia nei confronti di Dave e la sensazione di essere costantemente alla sua ombra, ma questo tentativo di rendere esplicite le dinamiche interne del personaggio termina lì. Rimane un accenno di chiarezza in una pellicola di più di due ore, in cui però i contenuti utili potrebbero ridursi a probabilmente la metà della durata. I tempi sono davvero troppo dilatati, rendendo noiosi i gesti che dovrebbero risultare impetuosi e ritardate le reazioni (anche se di reazioni è difficile parlare, quando mancano gli stimoli).
La regia, fortunatamente, merita delle lodi. L’occhio di Bennett Miller regala una visione mai banale dei fatti, specialmente nei dialoghi, nei quali il classico campo-controcampo viene reinterpretato e, allo stesso ritmo della sceneggiatura, rallentato. Non segue le battute dei personaggi, ma indugia su uno dei due interlocutori, lasciando che la voce dell’altro rimanga fuoricampo.
Scegliere di andare a vedere questo film significherebbe sicuramente godere della visione di un prodotto tecnicamente e artisticamente pregiato, ma anche un film (nelle intenzioni) psicologico che non riesce a rendere completamente l’introspezione dei protagonisti. Quindi attenti! Vi converrà portare un cuscino, perché i personaggi sullo schermo non riusciranno a tenervi svegli.
Lucia Liberti