In quello spazio fantasma e disastrato di Castel Volturno, Maria svolge un sordido lavoro: quello di accompagnare i figli indesiderati di prostitute, verso donne desiderose di maternità per denaro.
Però la ragazza scopre di essere incinta, e questo la cambia. Il terzo film (ITA, 18) di Eduardo De Angelis, più l’episodio di “Vieni a viere a Napoli”, è riambientato in quella landa quasi del tutto sottratta alle regole del vivere civile, benché vicina a spazi cittadini, piena di vuoti fisici e umani: di uomini e soprattutto donne che sono costrette a disumanizzarsi, perché migranti nere e clandestine, e diventare cose, “fattrici” animate, sprovviste di quella personalità propria degli esseri pensanti.
La ragazza è parte di una famiglia che vive, perfettamente integrata nella gestione di quegli interstizi parassitari connessi all’articolarsi dello sfruttamento, eretto non solo a sistema economico, ma a generale pratica e filosofia di vita, di quelle esistenze ”altre”, da cui trae lucrosi profitti. Da rilevare che esso è gestito non solo da bianchi, ma anche da neri su altri neri. Però la peggio è Zi Marì, la fenomenale attrice Marina Confalone.
Essa è la datrice di lavoro di Maria: è lei che tiene le fila di questi traffici. Come tutti i veramente cattivi“dentro”, riesce ad avere delle parvenze di umanità, e di apparente bonomia simil-parentale: ma sono solo ombre che si limitano a nascondere, a malapena, quelle chele avvelenate di scorpione delle tenebre. E’ lei che sinuosamente, quando Maria ha fatto fuggire la nera incinta, accetta il fatto, perché pretende in cambio, e lo dà come tranquillamente assodato , come fosse un’ auto o un altro bene di consumo da barattare, il suo prossimo figlio. Del resto Maria, una splendida e attorialmente maturata Pina Turco, lo comprende benissimo.
Densa la qualità narrativa del rapporto con la madre, la brava e sperimentata attrice, oltre che da cinema e tv series, da una lunga e amata pratica teatrale, Cristina Donadio, umanissima proprio nel suo cercare di mantenere una non insincera espressività affettiva con la figlia, pur all’interno delle sue ambiguità. Rapporto che è vissuto in una dimensione di una fisicità molto ravvicinata, rilassata, se non sfatta; ma che nasconde una situazione di totale ipocrisia rispetto alla dipendenza da questa Zi Marì, e dalle sue attività, tra cui il ruolo della figlia, da lei tacitamente accettato. Il suo è tutto un finto. Suo e dell’altra sorella. In questa oscurità esistenziale, e nonostante tali premesse,in Maria si accende il “vizio”: quello di sperare in un futuro di persona che infrange i confini dell’inferno di Castel Volturno.
All’inizio vediamo che lei ragazzina è stata salvata dalle acque, col suo vestitino da Prima Comunione, dall’uomo poi accusato, ingiustamente, di averne abusato. Lo stesso uomo cui poi si rivolgerà per essere aiutata e ri-salvata. Quello di lei è un dipanarsi di una storia tutta “dentro”: è un dentro di portata quasi metafisica: religiosa. Il suo è un vivere entro i silenzi di quei vuoti ambientali. In cui è lei stessa a dialogare con gli spazi lasciati all’isolamento di chi che deve fidarsi solo di sé. Che rivestono le forme diuniversi fisici, ma abitati da altre solitudini e sofferenze, che lei conosce e che la riconoscono come appartenente a loro, come si vede in quelle passeggiate col cane, in mezzo a quella gente. La qualità narrativa, che accompagna ed è esaltata, in modi complessi, dall’adeguata e creativa resa visuale, è della sceneggiatura.
Che è dello stesso regista, autore anche del soggetto (cioè della fondante idea di partenza), e del Premio Oscar, per “La grande bellezza”, Umberto Contarello, uno dei più intelligenti, raffinati e qualificati scrittori del cinema italiano: essa ha avuto la funzione di esplorare, attraverso l’incisiva resa visuale del film, il percorso di presa di coscienza e di trasformazione, che muoveva dalle coordinate interiori di Maria. Ogni suo movimento, nella quasi assenza di dialoghi e di “parlati”, ha la funzione di svelare a noi i cruenti passaggi che si agitano all’interno di quella disperazione, di cui sembra nutrirsi la desolazione del panorama circostante. Cruenti perché, anche senza spargimento di sangue, richiedono sacrifici e passaggi di fatica fisica, tensione e dolore. Ma che lei assume dentro di sé trasformandoli. E rigenerandoli.
Questo è il senso dell’incontro con l’uomo che l’”ha salvata dalle acque”, come in una “quest” (ricerca) medievale, o di letteratura fantasy. Noto che anche nello stupendo “Indivisibili”, all’inizio c’erano delle Sirene (in realtà prostitute) che sembravano “uscire” ed essere parte delle acque che lambivano la casa delle due ragazzine.A quest’uomo, il cui nomen-omen è Pengue, tocca di esprimere il senso del film, in quell’unico monologo più articolato che esprime l’accettazione del farsi carico dei due destini, di lei e del nascituro. Massimiliano Rossi, l’attore che lo interpreta, è di grande carisma: viene dal teatro; e questo tipo di preparazione professionale gli permette una trasfigurazione attoriale di efficace rilievo. Il film è profondamente intellettuale: ma nel senso bertolucciano. Come le opere del maestro Bernardo Bertolucci, che da poco ci ha lasciati, dipana il suo ricco sviluppo visuale, in maniera coerente e di supporto drammaturgico ad un’idea specifica, quella della redenzione.
E già nell’ossimoro del titolo è evidente la ricchezza della sfida accettata. Il vizio è una dipendenza patologica: ma qui diventa un’istanza profonda, insopprimibile, ineludibile di cambiamento. La speranza da sola, e quasi di per sé, è una forza attiva e trainante, che si può manifestare all’interno di mille difficoltà e contraddizioni. Non c’è alcun piano inclinato, “obbligato”, facile al pessimismo distruttivo, tipico di molti intellettuali e registi, oggi, in queste difficoltà per il clima negativo che si sta manifestando nel paese e nella società. La volontà di resistere, affidandosi alla speranza è, come ha detto lo stesso regista, il senso e il segno del “restare umani”.
Francesco Capozzi