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Wonder

New York, giorni nostri: Augie è un bambino affetto da una sindrome che deturpa il volto.

La madre vuole che esca dall’isolamento protetto domestico, ed entri nella scuola: con tutti i rischi del caso. La Sindrome Treacher-Collins è una malattia che colpisce soprattutto i tratti del viso, mutandoli in modi mostruosi. Il film (USA,17) è tratto da un romanzo, che sta avendo un grande successo, di R. J. Palacio, edito anche da noi. Regista ne è Stephen Chbosky: l’ha anche sceneggiato, insieme ad altri due (Steve Conrad e Jack Thorne). A Chbosky cui si deve un intrigante e raffinato film sulle problematiche dell’adolescenza “Noi siamo infinito” (12). Soprattutto è un attento e bravo sceneggiatore, anche di Serie Tv. Nel senso che privilegia narrativamente gli snodi che approfondiscono i personaggi e le situazioni, dando luce principalmente alle motivazioni dei comportamenti, più che all’illustrazione dei comportamenti stessi, spesso con dettagli, però assai illuminanti. Il film aveva tutto per essere un drammone strappalacrime (kiagnazzaro), in più ricattatorio, perché si parla di bambini. Invece, pur avendo una tensione emotiva molto evidente, riesce ad essere attento, intelligente, profondo nella rappresentazione della malattia, perché allarga la prospettiva adottando punti di vista tematici validi per tutti: quello della difesa dei diritti del bambino malato; il rapporto con la diversità e una non peregrina riflessione sul bullismo. Siamo in un modello narrativo hollywoodiano, ovviamente; però in una declinazione particolarmente originale e di qualità cinematografica. Ad esempio: il regista sceglie, come atmosfera narrativa uniformante la commedia familiare. Quello stile cinematografico – con le sue regole codificate di sottogenere-, che mette in evidenza più storie convergenti su un dato ambiente domestico; in cui sono compresi anche spunti umoristici, amorosi adolescenziali, ritratti di adulti e il loro interfacciarsi cogli ambienti esterni. Questo ha dato al film una coralità molto viva, che gli permette di mutare e vivacizzare lo sguardo sulla stessa problematica centrale, che viene come “interpretata” e letta da più sensibilità: quindi la scorrevolezza è notevole e varia. Nel concreto abbiamo che il film ha dei capitoli, che sono delle lunghe sequenze, intestati ai vari singoli personaggi: la sorella di Augie, Via (interpretata da Izabel Vidovic) ; l’ex amica del cuore, Miranda (interpretata da D. R. Russell, ecc. Costoro esprimono e vivono una diversa soggettività rispetto al medesimo problema. Che però permette di approfondire le psicologie, in modi mirati e piacevolmente animati dei vari personaggi, sia in sé che in relazione al bambino, dando loro maggiori contenuti di vita. E’ come se si desse più “aria” e vita al narrare. E, pur approfondendo le caratteristiche psicologiche individuali in maniera ben differenziata, le si fa confluire con grande disinvoltura e chiarezza, in un quadro comunitario realistico di esistenza attorno a Augie e al suo problema. Così anche il rapporto del ragazzino con la sua classe è costruito con attenzione e finezza: sono rapporti difficili, come si può ben comprendere; in cui la diversità, subita da Augie, è letta all’inizio con quella noncurante ferocia, che i bambini talvolta sanno realizzare, senza nemmeno volerlo. Ed è comunque effetto del condizionamento da cultura consumistica del bello esteriore. Però piano piano sono costruite delle relazioni, che risultano credibili proprio perché lo sono in modi crescenti e non indotte all’improvviso, in cui sono i gli stessi bambini, attraverso il loro quotidiano e casuale interfacciarsi, ad andare oltre l’apparenza. Bisogna dire che preside e docenti della scuola plasmano le condizioni favorevoli a che tale inclusione avvenga: il cui risultato è quel finale liberatorio. Il regista e gli sceneggiatori sono davvero attenti in questa narrazione di piccoli miglioramenti continui, anche se con diversi stop & go. Tale approccio, presente nel libro di partenza, è stata da loro trasposta sullo schermo con efficacia e con creatività visiva. E si rileva che il bullismo assai spesso è indotto dal comportamento irresponsabile e superficiale dei genitori: essi da adulti sono i primi respingere il bambino “non bello” dalla compagnia del loro figlio, e lo vedono come una macchia nelle relazioni. E’ evidente che il figlio di cotali genitori è portato a diventare arrogante, se non violento, nei confronti di Augie: anche questo è un dettaglio di sceneggiatura, piccolo ma forte e incisivo. E tale osservazione ha valore generale rispetto ad una lettura di questa piaga comportamentale. Però nel film riescono a prevalere il buon senso e una certa qual atmosfera collettiva buonista, attraverso un approccio molto orientato in tal senso. Però il nucleo della narrazione è in grado di sostenere, anzi se ne avvantaggia, questi passaggi: offre sempre una spiegazione complessa e non unilaterale ai problemi. Ad esempio la madre, una splendida, emotivamente appassionata, ma controllatissima e anti-diva (non ha nemmeno troppo glamour) Julia Roberts, è tratteggiata nella sua disperata lotta, titanica, determinata e inarrestabile per il figlio, che le fa trascurare l’altra figlia. Lei avverte e soffre per questa dicotomia: ma la vive con gesti e espressioni, non con parole. Suo partner, e altrettanto misurato, con punte di ironia e con un ruolo diverso nella famiglia, è il padre amoroso senza sdilinquimenti, l’attore Owen Wilson, associato spesso a ruoli brillanti: ma in realtà è attore completo e bravo. Così anche le traiettorie adolescenziali della sorella e della sua amica sono ritratte con attente ed equilibrate riflessioni particolari. Il ragazzino, imbruttito (ma non troppo rispetto alla reale malattia) è il giovanissimo Jason Tremblay, già visto nel bel “Room”, che dà prova di sé molto convincente e, nonostante la gravità drammatica, riesce ad essere perfino festosa: in simpatia e sofferenza riesce ad essere umano e credibile. Perché è oggetto di una sollecitudine, senza essere opprimente, che mette in evidenza la rispondenza affettiva e la cura della famiglia, gli dà forza e fiducia in sé. Da ciò la giustezza della scelta apparentemente arrischiata, di farlo uscire di casa e fargli affrontare il mondo “vasto e terribile”, togliergli il casco d’astronauta, che lo nasconde, isola e protegge (gesto che poi farà da solo). Il regista “gioca” con lui visivamente, immettendolo talvolta in atmosfere fantastiche eroico-mitiche da ragazzino: ma ciò avviene con tenerezza, freschezza e nel pieno rispetto delle sue dinamiche. Sicuramente ha molto aiutato la riuscita del personaggio, il suo doppiatore italiano, il giovanissimo Gabriele Meoni, che gli dà una voce da ragazzino che vive le sue paure con eroismo e semplicità. Noi quasi non ce ne accorgiamo, ma il film ha una struttura fisica compatta, ma molto limitata: compreso com’è tra la casa e la scuola. Eppure la resa registica, nel suo utilizzare scenograficamente, con la production designer (scenografa) Kalina Ivanov, tali spazi, ne costruisce una visualità degli ambienti molto mossa, con un uso del montaggio interno molto sofisticato e vario, senza essere troppo veloce. Tutto ciò avviene in relazione ai personaggi, e al loro gioco collettivo. La direzione della foto è di Dan Burgess, che ha equilibrato i toni, anche quelli urbani, su tinte calde e accoglienti. Il film, costato relativamente poco (sui 20 mln di D), ha incassato meritatamente molto in USA e in giro pe il mondo (sui 240 mln di D).

 

 

Francesco Capozzi

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