Una coppia di giovani si separa: lui al College, lei a casa. Ma all’improvviso, lui cessa di farsi sentire. La ragazza preoccupata si mette sulle sue tracce…Nel 1998 uscì il giapponese “Ringu”, diretto da Hideo Nakata, tratto da un geniale racconto di inquietante atmosfera horror (molto alla Ph. H. Lovecraft) di Koji Suzuki. Il film ebbe un successo planetario (approdò con successo anche da noi), perché utilizzava in modo davvero originale e orrorifico alcuni stilemi tratti dai manga (letteratura disegnata) del terrore giapponesi, però utilizzati con delle forme cinematografiche che sembravano video. L’uso che se ne faceva era tecnicamente assai spiazzante: con degli stop-frame ravvicinati simil tv, con un numero di fotogrammi per secondo, molto rallentato; in movimenti improvvisi e inaspettati; minacciosi, angosciosi e pieni di arcane maledizioni, con un sostrato di sofferenza indicibile, colpì molto l’immaginario. E definì un nuovo tipo di horror film internazionale di provenienza orientale: da notare infatti che questo film ebbe rifacimenti di successo nel cinema sud coreano; e, in qualche modo, aprì la strada a forme di narrazione horror anche tailandesi. Nakata, che ha una sua personalità di narratore, in Giappone ne trasse una miniserie tv e anche dei game. Ma Hollywood non si fece sfuggire il ghiotto boccone: ne fece una specie di remake (“The Ring”) con Naomi Watts, diretto da Gore Verbinski (quello dei “Pirati dei Caraibi”), nel 2002: il cui successo ne permise nel 2005 il sequel (“The Ring 2”), diretto questa volta da H. Nakata: sempre con la Watts, che funzionava a dovere. In realtà fu un remake hollywoodiano del “Ringu 2” che lui stesso aveva realizzato in Giappone nel 99. Il senso di questa nota storica è che l’universo narrativo che viene affrontato nel presente film (USA, 17), è già stato “codificato”: ha un’articolazione piuttosto strutturata e corposa. La vicenda di Samara, il personaggio chiave dell’intero ciclo, è fortemente caratterizzata e quindi “obbligante”. Ecco quindi la necessità di servirsi di sceneggiatori adatti, e bravi, per creare una narrazione che, nel mentre rispettasse l’essenziale del ciclo, ne desse una variazione tale da interessare il pubblico. Sono tre i professionisti che si sono messi in gioco: David Loucka, giovane professionista noto per alcuni validi horror, ma anche commedie; Jacob Estes, anche lui giovane, che però è anche regista di horror; il più conosciuto e apprezzato è il terzo: Akiva Goldsman. Navigato ed esperto, ha firmato diversi film di successo. La vicenda prende un taglio diverso; che è richiamato dal rifarsi al mito di Orfeo ed Euridice: ma stavolta è Euridice che scende agli inferi e salva Orfeo. La protagonista è la ragazza che con coraggio e determinazione per salvare il fidanzato si accolla la responsabilità della missione. Che è quella di scoprire i veri avvenimenti della vita di Samara, al fine di renderle giustizia; e soprattutto individuare dove sono nascosti i resti mortali per dare ad essi la pace di una degna sepoltura. Perciò va nella solita Comunità rurale di origine (alla Stephen King), dove si consumano, nella solita, totale omertà, se non attiva complicità, i più nefandi crimini. Poi, nella parte finale, apparentemente positiva, si scoprono gli altarini (è il caso di dire, perché c’è di mezzo un prete…). Ma c’è un inquietante sottofinale, che apre a sciagure planetarie -oltre che a un sequel-, perché mette in moto l’incontrollabile viralità del video assassinio, ora esportato sulla rete: da qui il titolo originale, che è “Rings”. Ciò che dà al film la sua compattezza e originalità, soprattutto visuale, è il tipo di sguardo adottato sull’insieme del film. Il regista è il giovane andaluso Francisco Javier Gutierrez (di Cordova), che, fattosi apprezzare per un horror spagnolo, è stato chiamato a Hollywood: la sua attenzione alle motivazioni dei personaggi, soprattutto della ragazza, lo rende particolare. E’ molto attento a costruire un’atmosfera compatta di malessere generale, in cui prende piede il confronto col video assassino: specie nella prima parte. In quella successiva prende il sopravvento la ricerca e l’inchiesta: però è bravo a mantenere unito il filo tra le due istanze narrative, quella del video che “deve” avere le sue vittime, e la risposta al perché ciò avvenga. Interessante e singolare è anche la scelta del casting: la protagonista è un’attrice totalmente italiana, Matilda Lutz. Nata a Milano, anche modella, è conosciuta da noi per “L’estate addosso” (16) di Gabriele Muccino, e “L’ultima ruota del carro” (13) di Giovanni Veronesi, e in serie tv che l’hanno fatta notare. Da dire che ha già partecipato (nel 14) ad un film e ad una serie tv in USA. Questa scelta ha funzionato. Ha assicurato un tipo di presenza diverso dalle solite giovani eroine biondastre e inconsistenti scelte nei film horror. E’ un personaggio forte e determinato, e ci accompagna in questo viaggio, comunicandoci personalità e sicurezza esistenziale. Ma è la direzione della foto che assicura quella compattezza che è contemporaneamente visuale e stilistica al film: essa è stata curata da Sharone Meir, eccellente professionista di origine israeliana, che ha lavorato nell’ottimo “Whiplash” (14) e in diversi horror movies di successo. Quindi in grado di caratterizzarsi stilisticamente anche in atmosfere narrative diverse. Molto impressionanti, senza essere però troppo invasivi, gli Effetti Speciali Visuali (VFX) , coordinati da Marc Massicotte: pur non essendo un nome conosciuto al grande pubblico, ha lavorato in numerose importanti produzioni, caratterizzandosi per efficacia, solidità ed eleganza. Il film nel complesso prende, specie nella prima parte, tra l’università e gli esperimenti dei giovani studenti, e in quella ambientata nella misteriosa comunità rurale: talune parti di raccordo e passaggio, benché sempre di curata qualità visiva, sono un po’ incerte.
Francesco Capozzi