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Sette minuti

Tra Sabaudia e Latina c’è una fabbrica tessile di 300 operaie che cambia padrone. Le condizioni di riassunzione, che la Commissione Sindacale di fabbrica deve ratificare, sono le medesime, con un piccolo “però”… Ispirato ad un fatto di cronaca del 2012 avvenuto a Yssengeaux, nel nord francese dell’Alta Loira, che aveva come protagoniste le operaie di una fabbrica tessile, è diventato un testo teatrale di Stefano Massini, che ha girato l’Italia. A Michele Placido è stato proposto di realizzarne il film (ITA-FRAN, 16). Ambientato nella provincia “profonda” italiana, mantiene intatto l’impianto teatrale; anche se lo diversifica, precisandolo nella sua raffigurazione fisica ambientale (il set della fabbrica è reale ed è di Latina), e approfondendo le storie delle singole operaie. La sceneggiatura è dello stesso Placido, di Massini e di Toni Trupia. Le uniche presenze che erano parte del cast teatrale sono quelle di Ottavia Piccolo e dell’attrice del Mali, la splendida e potente Balkissa Maiga; tutte le altre sono nuove. La provenienza teatrale si rileva soprattutto nel succedersi delle due parti: la prima riguarda la trattativa tra i “padroni”; la seconda, la discussione vera e propria tra le operaie, che è il vero centro del film. Ho trovato un po’ meccanica tale successione. Anche se doveva servire a stabilire la continuità/trasformazione tra il finto paternalismo padronal-capitalistico dei vecchi proprietari e l’adesione a più moderne forme di sfruttamento globalizzato e gestito da logiche finanziarie, portato dalla spietata e ipocritamente femminile e perfino familistico-nonnesca manager francese. L’attrice che l’interpreta, Anne Consigny, è molto brava nella sua misurata, charmante ma dura raffigurazione plastica. E’ certamente un (raro) film dalla parte degli operai: in cui il loro sentirsi parte di un tutto sociale, quella che era chiamata “classe”, è dipinto secondo logiche che sono loro proprie: ovvero che appartengono a ipotizzabili vissuti che realisticamente potrebbe riguardarli, e in cui sono sviluppati come personaggi. Ma, si badi, non è che sono “buoni” tout-court, o eroi: al contrario tendono a scontrarsi, anche piuttosto rudemente, perché diventano portatori di logiche individuali/individualistiche di pura e bieca sopravvivenza. Ognuna di loro ha un proprio personale “universo” di riferimento esistenziale. Il lavoro degli sceneggiatori è stato incisivo, perché in pochissime, veloci battute, ce le hanno molto ben differenziate; e spesso con sfumature e sfaccettature ulteriori. E’ il caso della coordinatrice della commissione, la molto umana e attenta Ottavia Piccolo, che vanta un vissuto pregresso di familiarità, forse anche più profondo, con uno dei padroni della fabbrica, Michele Placido stesso: ma che non le fa da paraocchi nell’essere lucida e volta a riflettere sugli interessi comuni operai. E’ anche la più sensibile e consapevole nell’assumersi le responsabilità del ruolo, pur se incompresa e osteggiata dalle altre. E’ lei che induce a far riflettere, in un meccanismo narrativo un po’ ispirato a “La parola ai giurati” di Sidney Lumet (ma lo ha dichiarato con molta onestà lo stesso regista), tutte le altre sulla trappola dei “7minuti” da togliere alla pausa pranzo. Singolarmente non sono molti: ma moltiplicati per 300, fanno circa 900 ore annue; ovvero impediscono altre assunzioni, o permettono di licenziare una o più di loro. E poi? Se ora cedono su questo, la prossima volta su cosa saranno chiamate a cedere? E’ l’incalzare dei dialoghi che mette in luce la violenta forza del ricatto messo in opera dai nuovi padroni. Ma cui alcuni, in cambio di una pur se limitata, immediata e sostanzialmente fallace sicurezza del “posto di lavoro” fisso, sono portati a sottostare. E ciò è detto senza alcun dito puntato: ma col realistico e concreto senso della necessità. In particolare, questo modo di ragionare caratterizza il fare dell’operaia napoletana, l’assai aggressiva e passionale Maria Nazionale. Ma anche la più giovane, che vive i riti del consumismo giovanile proletario metropolitano, che ora si apre ad una vita organizzata di coppia, sembra la più restia ad assumere linee comportamentali inerenti a valori come solidarietà, socialità. Ma è anche la più libera da pregiudizi e incrostazioni ideologiche: e il suo cambiamento di posizione sarà il più importante. Perché si renderà conto che non esiste altra difesa se non quella collettiva, l’essere solidali e lottare tutte insieme. Molto interessante è il personaggio di Ambra Angiolini: è una macha che mena; ma è anche attenta al suo essere donna tra altre donne. La sua interpretazione, un po’ volutamente sopra le righe, è di pura energia fisica. Miratamente “sotto tono”, cioè senza spocchia divistica, ma dirette, sensibili ed efficaci le presenze di Fiorella Mannoia e Cristina Capotondi. Però colei che mi ha convinto di più è l’attrice di colore Balkissa Magua, una presenza imponente fisicamente e drammaturgicamente (nu’ piezz’e’ femmen’…). C’è una battuta sua che mi ha colpito, e dice: “io vengo dall’Africa, dove la paura di peggiorare il nostro vivere e perfino morire era quotidiana, assoluta e in ogni cosa. Ora anche voi la state iniziando a vivere; magari un poco: ma la paura di non farcela, di peggiorare, sta venendo anche tra voi, qui…”. Certo non è la stessa cosa che in Africa; ma la dimensione di instabilità sociale e di disgregazione si sta manifestando in modo grave e diffuso. Ed è facile, in risposta a questo senso, chiudersi nella paura e nell’egoismo e prendersela con chi è più socialmente debole o diverso. L’illuminazione del film, i suoi cromatismi sono perfettamente in linea con la resa drammatica: essi sono di Arnaldo Catinari, non solo uno dei più bravi e dotati direttori della foto italiana, ma anche uno dei più premiati. Il montaggio ha molto aiutato la scansione dei tempi: la loro distensione in una continuità narrativa che desse il senso della vita, per quanto in un ambiente limitato: ma questo era il senso della vinta sfida cinematografica. Consuelo Catucci l’ha curato con un’adesione forte e sentita alle linee guida della sceneggiatura.

Francesco Capozzi

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