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La ragazza senza nome

A Serang, un borgone anonimo alle porte di Liegi (Belgio), la giovane dottoressa Jenny, in un momento di ira col suo stagista, oltre l’orario, rifiuta un ingresso al suo ambulatorio. E’ una ragazza poi uccisa. Sentendosi colpevole, Jenny investigherà per dare un nome alla sconosciuta. Come al solito, gli autori di questo film (FRA-BEL, 16), i fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, registi, oltre sceneggiatori e produttori, hanno lasciato perplessi molti critici e spettatori. Presentato a Cannes 16, non ha suscitato consensi particolari: è stato preferito l’inglese Ken Loach, che ha vinto la Palma d’Oro; come loro, autore attento al sociale: ma più barricadero e tematicamente diretto. Ma forse a Cannes non ha giovato l’eccessiva lunghezza del film: difatti, umilmente, i due, hanno riflettuto sulle critiche, lo hanno accorciato di 7 min e rimontato; e questa è l’edizione attualmente circolante. In una dichiarazione che hanno reso c’è l’approccio che caratterizza tematicamente il film. Essi citano F. Dostoevskij: “Siamo tutti colpevoli di tutto e di tutti davanti a tutti; e io più degli altri”. Eppure il loro sguardo non è bergmaniano o religiosamente calvinista, cupamente rivolto al senso metafisico della colpa universale, ma continua ad essere strettamente sociale.

 

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La genialità del loro approccio alle tematiche dell’inclusione, contro ogni razzismo e segregazione sociale, è per l’appunto questa: l’aver posto con forza che l’atteggiamento di apertura verso l’altro deve avere radici all’interno di sé. Deve essere frutto di una scelta: deve aver i contorni di una vera e propria assunzione di responsabilità. I due registi di Liegi, senza moralismi, ci danno materiali per riflessioni etico-politiche molto profonde. Dopo la caduta dei “massimi sistemi” ideologici progressisti del 900, il marxismo organizzato nei vecchi partiti post comunisti e socialisti, quali sono le coordinate su cui muoversi? Su che basi fondare i valori della democrazia inclusiva e solidale, del progresso sociale non solo fondato sulle leggi del consumismo? Essi pongono tangenzialmente la loro attenzione su queste riflessioni: ma esse sono parte integrante del linguaggio e dello stile dei loro film; anzi, ne rappresentano le novità e l’originalità; lo ravvivano dall’interno. Spesso, ad esempio, si è parlato di “metro primo piano”, a proposito del modo con cui i due “seguono” l’attore protagonista dei loro film (più spesso un’attrice) mentre si sbatte e va da una parte all’altra della città, del quartiere, ecc. A parte la presenza in numerosi loro film della stessa montatrice, la brava Marie-Hélène Dozo, e del medesimo direttore della foto, il duttile Alain Marcoen, è una precisa scelta stilistica. Essi vedono sempre al centro la persona; ce la fanno conoscere nel profondo, ne colgono le sfumature di umanità: non è mai (solo) un personaggio, una silhouette; ma una precisa identità con cui ci invitano a entrare in comunicazione; addirittura in silenzio. E’ infatti caratterizzante del loro cinema, come in questo film, la quasi totale assenza di musica alla Robert Bresson, il grande regista francese cattolico di riferimento. In loro fondante è la percezione dell’essenza dell’uomo: la sua dimensione “ultima”, fatta di sé profondo; dimensione che è spesso nascosta e ignota all’uomo di oggi, dimensionato essenzialmente come “consumatore”. I personaggi incrociano, nel loro infaticabile muoversi, spessissimo strade aperte di periferia, aperte a vari incroci, ai confini dei grandi centri urbani, percorse da auto, in contesti architettonici “vuoti”, cioè privi di personalità: palazzoni in quartieri di periferie. Sono scelte scenografiche precise. Sono come dei deserti urbani di metafisica evidenza. A parte la lezione dei due registi J.-M. Straub e D. Huillet, essi ci dicono che il nostro vivere nelle società affluenti, è “sempre” un vivere ai margini: perché attorno c’è il nulla, la solitudine, il deserto. Perché mancano i rapporti, che sono tutti e del tutto da costruire. Anche Jenny nel suo studio medico ha dei passaggi obbligati: un percorso che, per quanto stretto e vincolato, ha una funzione plastica e figurativa: lei non è mai immobile. Diventa la raffigurazione spaziale e metaforica del suo spirito inquieto ma generoso e aperto; perfino obbedisce a tale finalità l’insistita enfasi sul suo fare professionale, sempre efficiente e rispettoso. L’attrice Adèle Haenel ne dà una interpretazione potente e semplice, nello stesso tempo. Commossa e giovanilmente combattuta: di grande fascino. Poi non mancano i “soliti” attori dei Dardenne:  Jéremie Rénier, in un ruolo difficile, già visto nello stupendo “L’enfant”; la “faccia” di Olivier Gourmet, violento e ipocrita; Fabrizio Rongione. Dei due Dardenne, Luc ha studiato filosofia all’Università Cattolica di Lovanio, uno dei centri più prestigiosi e avanzati di elaborazione di ricerca filosofica della Cattolicità. E gli è rimasto molto di questa formazione. Insieme a Jean-Pierre ha costruito un vero e proprio umanesimo sociale “applicato” alle odierne contraddizioni. I punti chiave del film sono due: quando il colpevole si rende conto del male, e in lui penetra quella che U. Galimberti definisce la “terza componente” del giudizio di colpevolezza, oltre alle capacità d’intendere e di volere, quella di “sentire” entro di sé la risonanza etica del gesto compiuto. E’ un processo, un percorso. E solo quello porterà alla liberazione dalla colpa. L’altro è quando, anch’essa finalmente affrancata, la sorella riconoscerà la ragazza deceduta, dopo avene negato l’identità, e Jenny, con un gesto d’intensa e conclusiva commozione, vorrà abbracciarla. Aver dato identità alla ragazza, significa aver dato quiete, ma non assopimento, alla propria coscienza: aver esercitato il senso del perdono, verso sé: ma in funzione degli altri. E subito dopo, la dottoressa continua la sua vita professionale e personale: “accompagna” ed aiuta la paziente anziana claudicante verso lo studio, con maggiore e più consapevole leggerezza. Come si vede è un itinerario molto complesso di rivisitazione delle dinamiche della società contemporanea, delle sue complessità, delle sue ruvidezze e difficoltà. Non c’è un approccio semplicistico; o presuntuosamente esaustivo; e men che mai moraleggiante.

Francesco Capozzi

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