Incomprensibile è forse la parola adatta per questo film. Per quanto possa suonare negativa e stridente, tuttavia, non significa che debba esserlo per forza. Incomprensibile è l’aggettivo adatto perché sembra quasi di entrare in una fitta rete di elementi apparentemente collegati fra loro che, tuttavia, mancano proprio di ciò che dovrebbe essere lì a unirli.
Third Person è stato scritto, diretto e prodotto da Paul Higgis e appare come un progetto sicuramente parecchio ambizioso. La trama si tripartisce per volare fino a tre destinazioni diverse: New York, Roma e Parigi. Nella città americana Julia, interpretata da Mila Kunis, lavora come cameriera in un hotel per pagare il processo che vuole toglierle suo figlio, affidato al padre (James Franco) e alla sua nuova compagna. A Roma Sean (Adrien Brody) è alle prese con Monika (Moran Atias), intenta a recuperare sua figlia di otto anni. A Parigi Michael (Liam Neeson) cerca di concludere il suo libro mentre trova la strada dell’amore insieme ad Anna (Olivia Wilde). Ho sintetizzato le tre storyline fino all’osso, ma vi assicuro che tutto è decisamente molto più complicato di quanto sembri.
Ogni storia sembra totalmente indipendente dall’altra, ma quando lo stesso foglio si troverà in due posti diversi e tanti fiori bianchi assumeranno il dono dell’ubiquità passando dalla stanza 203 di Parigi alla stanza 203 di New York, cominceremo a porci delle domande parecchio serie alle quali, tuttavia, non troveremo una risposta univoca e chiara. È per questo che definirei questo ultimo lavoro di Higgis come incomprensibile, nonostante mi sia piaciuto. La prima metà ti tiene incollato allo schermo, alla ricerca di risposte che non hanno abbastanza presupposti per esistere. I personaggi affascinano con la loro psicologia ben studiata e gli elementi si incatenano come, per esempio, l’acqua, che per qualche motivo torna sempre, e il colore bianco, costantemente presente sulla scena. La fotografia, curata da Gianfilippo Corticelli e le musiche di Dario Marianelli lasciano un patriottico respiro di sollievo che può controbilanciare l’inaspettato Riccardo Scamarcio forzato a interpretare lo stereotipo di “romanaccio” (e sottolineo le virgolette) più stereotipato della storia degli stereotipi e la scelta di alcuni brani inseriti nella colonna sonora (Gigi D’Alessio e Anna Tatangelo? Seriamente? No, ma dico, seriamente?)
Le tre donne, Atias, Kunis e Wilde, portano sulla scena una forza non indifferente. Chi lotta per il proprio figlio, chi invece cerca di scappare da una realtà troppo orrenda e malata per poter essere allontanata tutta d’un colpo. Brody che dorme nelle stazioni (i treni andersoniani non gli piacevano più?) e si dà da fare per rincorrere qualcosa che non ha alcuna certezza. E poi c’è Michael, lo scrittore, vincitore del premio Pulitzer che cerca di tornare a scrivere in maniera onesta. Lui, che tiene un diario scritto in terza persona, dove con distacco parla di ciò che gli succede, di ciò che prova. Lui, alla ricerca dell’amore e costantemente impegnato nella realizzazione della sua opera, tanto da annotare frasi a effetto che ascolta o che dice durante la giornata. Lui, consumato dal senso di colpa.
In Third Person si respira la voglia di quello che i Foster the People chiamerebbero Coming of Age, un nuovo inizio che, tuttavia, non risulta sempre possibile. Il film nel complesso è piacevole, sfiora le corde di un thriller psicologico mescolato con spezzoni di un’originale commedia romantica.
Manca, tuttavia, quel fil rouge saldo e sicuro che ci lascia senza nessun dubbio, quell’exploit finale che piace a molti perché evita il tormentarsi continuativo che solitamente dura almeno una settimana. C’è chi, invece, apprezza la scelta del punto interrogativo perché lascia libera la fantasia. A ognuno la sua interpretazione.
Anna Scassillo