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Boyhood, i dodici anni più veri della storia del cinema

Quando ero piccola, ma molto piccola, pensavo che i film in cui il protagonista ci veniva presentato prima come un bambino, e poi come un adulto, venissero girati in periodi diversi perché l’attore sulla scena fosse sempre lo stesso.
È stata questa la prima cosa a cui ho pensato quando ho letto di Boyhood. Quella mia ingenua idea, alla quale forse, durante l’infanzia, abbiamo pensato un po’ tutti, era diventata realtà. Non potevo fare a meno di vederlo.
La sfida di Richard Linklater (Prima del Tramonto, Prima dell’Alba, Before Midnight) è stata proprio questa: mantenere gli stessi personaggi dall’inizio alla fine, dandoci la possibilità di vederli crescere, maturare, invecchiare.
Le riprese, complessivamente durate 39 giorni, sono cominciate nel maggio del 2002: la troupe e il cast hanno avuto appuntamento fisso ogni anno per dodici anni, quasi a festeggiare una ricorrenza. Il lungometraggio dura quasi tre ore, è stato presentato in anteprima al Sundange Film Festival e poi in concorso al festival di Berlino, vincendo l’Orso d’argento nella categoria miglior regista.

Il film si apre con la celebre “Yellow” dei Coldplay e il primo piano degli occhi azzurri di Ellan Coltrane, che interpreta il protagonista Mason Evans. 
Mason è un bambino coi suoi sogni e le sue fantasie, colleziona pietre e crede che le vespe nascano dall’acqua. Guarda i cartoni animati da un vecchio televisore della Sony, legge con entusiasmo le avventure di Harry Potter e vive con sua madre Olivia e la sua sorellina Samantha, poco più grande di lui, che ama importunarlo svegliandolo sulle note di “Oops… I did i t again!” della Spears.
I genitori sono separati, il padre Mason Sr. torna dall’Alaska dopo un anno e mezzo, ripromettendosi di essere un padre più presente per i suoi due bambini. 
Mason Sr. è un uomo piuttosto giovane, sgangherato e amante della musica, alla continua ricerca di stabilità. Porta in giro i suoi figli in una vecchia Gto, ama i Beatles e non sopporta Bush.
Il suo primo incontro con Olivia dopo il ritorno non sarà dei migliori e, anche se questo può sembrare un dettaglio scontato e inutile, non lo è. Samantha non ricorda i bei momenti passati insieme quando i suoi genitori erano ancora sposati, ma solo le urla e i litigi dell’ultimo periodo. Mason sogna ancora che suo padre e sua madre possano tornare insieme. 
Tuttavia Olivia sposerà Bill, il suo professore universitario, padre di due bambini. Si verrà a creare, così, una famiglia allargata composta da quattro ragazzini dagli interessi comuni, che si emozioneranno per l’uscita di Harry Potter e il principe mezzosangue e impareranno ad essere fratelli.
Questa serenità familiare, però, finirà presto. Bill è infatti un ubriacone violento, ma Olivia avrà il coraggio di scappare via coi suoi due bambini e di ricominciare daccapo. Insegnante di psicologia all’università, infatti, si sistemerà con la sua famiglia in una nuova casa, intraprendendo una nuova relazione con uno studente, ma lasciandolo poco dopo sempre a causa del suo cattivo vizio di alzare il gomito.
Intanto Mason Sr., adesso infatuato dalla politica di Obama, incontra i suoi figli ogni due settimane, si interessa seriamente della loro vita e cerca di instaurare un rapporto basato sulla comunicazione.
Parla con loro di questioni serie, cerca di non farli cadere nei suoi stessi errori.

Nel mondo, intanto, abbiamo il boom di Facebook. Mason compie 15 anni con i capelli lunghi, il padre adesso ha una nuova compagna e un bambino nato da poco. 
Scoprirà la sua passione per la fotografia e si innamorerà seriamente su “Helena Beat” dei Foster the People (grazie alla quale si è scatenata la mia vena pseudo-fangirl), inizierà a guidare e a pensare all’università, avrà il cuore spezzato e si diplomerà, andando via da casa più o meno a vent’anni, salutandoci sulla scena con un nuovo incontro, semplicemente godendosi il momento.

“Tutti dicono che bisogna cogliere l’attimo, ma io credo che in realtà sia l’attimo a cogliere noi”.
Come potete vedere non c’è da aspettarsi una trama fitta di colpi di scena ed eventi sorprendenti. Boyhood è un film sulla vita, sulla normalità della vita e, allo stesso tempo, sulla sua straordinarietà. 
All’inizio, a causa dello svolgimento del quadro narrativo, potreste rimanere incollati allo schermo aspettandovi chissà quale esordio con il botto, passerete la prima metà del film a domandarvi il senso di ciò che state vedendo, ma lo troverete senz’altro alla fine. L’originalità e, oserei dire, la genialità di Boyhood sta nell’idea. 

Rifletteteci: un film che parte dal presupposto di raccontare dodici anni di una vita probabilmente non sarebbe riuscito se la trama fosse stata troppo complicata. Non vi sarà possibile individuare alcuna traccia di finzione. Il percorso è lineare, i personaggi che vengono lasciati indietro, a differenza di quanto potreste aspettarvi, desiderosi di un qualche momento di tensione massima, non appariranno più sulla scena, così come le persone che decidiamo di dimenticare. Tutto è incredibilmente realistico e nulla è lasciato al caso.
Il monitoraggio cronologico è analizzato nei minimi dettagli. La sceneggiatura è stata scritta anno per anno e questo ha dato al regista la possibilità di scandire il tempo anche tramite eventi socio-politici caratteristici del periodo che va a rappresentare. Avremo così il conflitto con l’Iraq, l’avvento della politica di Obama, la nascita dei social e l’apparizione degli iPhone. 

La colonna sonora, che include alcuni dei miei artisti preferiti, può essere tranquillamente definita perfettamente “a tempo”.
Se dovessi individuare una parola chiave per quest’opera sceglierei semplicità. Le riprese, la fotografia, il montaggio. È tutto molto semplice, nessun virtuosismo cinematografico, nessun effetto speciale. A tratti sembra quasi un documentario che vuole renderci testimoni dell’esistenza dell’essere umano, della sua crescita e del suo inserimento nella società.
Tutta questa semplicità, alla quale potreste storcere il naso, ci darà allo stesso tempo la possibilità di conoscere i personaggi nel profondo, di carpire la loro psicologia più nascosta. A un tratto ci sembrerà di conoscerli da sempre, di essere entrati a far parte della cerchia di amici della famiglia Evans.

Mason è un artista, come suo padre, totalmente coinvolto nella fotografia, che vuole fare del suo futuro qualcosa che lo soddisfi, qualcosa che lo renda felice. 
“Penso che ci siano tantissime cose che potrei fare e che magari vorrei fare. Solo che non le sto facendo”.
Sempre molto riservato, sorride e parla poco fin da piccolo. Il suo carattere introverso gli conferirà una sottile profondità che saremo capaci di intendere in diversi momenti del film. Essendo il protagonista, impareremo a conoscerlo meglio di quanto conosceremo gli altri personaggi, ma ci sarà possibile leggere il cambiamento graduale in ognuno di loro. Se dapprima Olivia e Mason Sr. non potevano neppure guardarsi, al diploma di Mason ci sorprenderemo del loro abbraccio e dei loro dialoghi.

Boyhood è una finestra sulla vita e ognuno di noi può trovare il suo punto di vista all’interno di uno o più personaggio. L’adulto che muove i suoi primi passi nel mondo, il padre che cerca di ritrovare il suo rapporto con i figli, la madre restia a lasciarli andare via dal “nido”. 
I personaggi crescono insieme agli attori, così come siamo cresciuti e continuiamo a crescere tutti noi. Guardiamo i protagonisti da un occhio interno ed esterno allo stesso tempo, li guardiamo lottare con la loro esistenza mentre la loro identità si crea. Sorridiamo con loro e, alla fine, li abbandoniamo a malincuore, come si saluta un amico che parte lontano, desiderosi di far ancora parte della loro vita, ma consapevoli di doverli lasciar andare.

Anna Scassillo

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