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Vice. L’uomo nell’ombra

La vita pubblica e privata di Dick Cheney, il Vice di George W. Bush alla Casa Bianca: dal 2001 al 2009, dall’attacco alle Torri Gemelle fino alla Guerra in Irak contro Saddam. Il film (USA, 18) è diretto e sceneggiato, oltre prodotto, da Adam McKay, al quale si deve “La grande scommessa” del 15, in cui si vedeva come la crisi del 2008 era largamente prevedibile: tanto che permisead alcuni spericolati finanzieri, che crearono dei titoli assicurativi molto a rischio su banche e imprese che fallirono -in pratica “scommettendo” che sarebbe avvenuta-, di fare ingenti profitti.

Insomma: è uno che sulle cose va a fondo, anche scontrandosi, e smascherandola, con la cultura e l’ideologia dell’establishment, sia finanziario, come nel film del 15, che politico, come in “Vice”. Da notare che sia lui che uno dei produttori, Will Ferrell, più noto come attore, nonché uno dei protagonisti, il grande Steve Carrell, che dà al personaggio di D. Rumsfeld, il loro ministro della difesa, un tocco di grottesca follia, vengono dall’esperienza satirico-politica, comico-cabarettistica  del “Saturday Night Live”, che è stato una specie di Maurizio Crozza Show di grande e duraturo successo. E’ possibile dare vita ad un personaggio così sfuggente e complesso, come è stato Dick Cheney? L’uomo è stato indicato non come il “Vice” di George W. Bush, ma il Co-Presidente: di fatto le più importanti scelte della non memorabile presidenza di Bush “o’ piccirillo”, sono state dettate da lui. Storicamente è documentato, che le decisioni e le responsabilità dell’attacco a Saddam erano del tutto di Cheney.

 

Anche se mai dalla sua diretta voce: a differenza di Nixon, di cui era stato collaboratore,  che parlava a ruota libera nello Studio Ovale, ed era registrato, Cheney “spezzettava” il suo potere in numerosi uffici periferici, da cui controllava, praticamente, tutta l’Amministrazione Bush: ma mai restando in piena luce. E Bush? Contava zero. Il film, nell’interpretazione, che ci muove quasi a simpatia, di Sam Rockwell, lo dà a limite del minushabens (nu miez’scem’), del che vi sono forti sospetti che sia stato vero: in pubblico appariva spesso svagato e poco “sul pezzo” politico del momento.

 

Come Reagan, che capiva ancor meno di politica estera e di economia: però almeno “recitava” a puntino, da ex attore (anche se pure lì era stato na’ mezza pippa), ciò che gli dicevano di pronunziare, e poi aveva una moglie, Nancy che era tosta e intelligente, e lo controllava a vista: sempre e ancor prima dell’Alzheimer, impedendogli di gettarsi allo sbaraglio in scelte non sue, tranne che nella sua ossessione antisandinista in Nicaragua. E il forsennato autoritarismo di Cheney, che metteva sotto i piedi ogni senso di legalità, in nome della da lui considerata enfaticamente “sacra difesa” della sicurezza degli USA, è semplicemente, e sornionamente, commentato dal film con la notazione “fattuale”che la Halliburton, finanziaria USA di energetica, costruzioni e logistica, di cui era stato Presidente e AD, e che, grazie ad appalti senza gare, aveva avuto moltissimi contratti in Irak, aveva aumentato i suoi profitti del 500%. Il film tutto questo ci dice con un narrazione secca, documentata: ma molto concentrata e viva; che usa stilemi del cinema documento, ma sempre drammaturgizzando i fatti, anche complessi da comprendere, in modi incisivi e instancabili.

 

Come nella rappresentazione cinematografica, fatta di veloci ma chiarissimi pezzi di montaggio, della teoria dell’”Esecutivo Unitario”, un punto chiave del suo fare. Fu il giurista Antonin Scalia, che per questo adì alla Corte Suprema , che lo scovò, sulla base di un’interpretazione logica, benché violentemente di parte, di alcuni articoli della Costituzione. Per tale input, l’esecutivo -ovviamente nella persona del Vice…- aveva il predominio su tutti gli altri poteri dello stato: per cui la loro divisione, base del Diritto Costituzionale moderno da Montesquieu in poi, non aveva più senso. Ecco quindi la tortura, la prigione di Guantanamo, la stessa guerra ecc. Il film si regge su questa narrazione serrata svolta tra acquisizioni e riflessioni politiche, talvolta brechtiane, talvolta shakespeariane, e calata psicologica di queste all’interno dei suoi personaggi e dei suoi validissimi interpreti: tra tutti il protagonista, un “infernale” Christian Bale, che “scompare” letteralmente all’interno di questa mefistofelica, ma anche umana personalità.

 

Come nel rapporto con la figlia gay che gli bloccò la corsa alla  Presidenza: anche se dopo non esitò ad abbandonarla per sostenere politicamente l’altra sorella.E poi la moglie, essa stessa una Lady Macbeth: terribile e posseduta dall’ambizione, quasi quanto se non di più del marito. Una straordinaria Amy Adams. Anche se non sostenuto da gran successo, sta facendo incetta di premi: meritatamente, perché è un film di grande spessore e di eccellente tenuta. 

 

Francesco Capozzi

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