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Il Cliente

Nella Teheran di oggi, una giovane coppia trasloca. Ma il nuovo appartamento riserva una sorpresa: era il sito di lavoro di una prostituta. E un antico cliente si rifà vivo… Normalmente i film iraniani hanno una circuitazione di iper-élite, perché supportati principalmente dai critici dei Festival: ma ciò non fa bene agli stessi film, perché è come se fossero progettati per i “soli” festival; quindi diventano eventi di sterile autopromozione, oggetti di mode culturali, lontani dai pubblici “normali”, cioè paganti. Un po’ diverso è il caso del regista iraniano Asghar Farhadi: fattosi conoscere per degli innovativi film controcorrente in Iran, subito ha fatto il salto a Hollywood, dove ha realizzato l’interessante e “non allineato” “About Elly” (09): che l’ha fatto conoscere e apprezzare al pubblico internazionale. Forte di questo prestigio cosmopolita, è tornato in patria, con cui non ha mai perso i contatti sia personali che produttivi, è ha composto il dolente, intimista, ma contemporaneamente attento al sociale, “Una separazione” (11); che ha fatto messe di premi in tutto il mondo: anche in Italia è stato candidato come Miglior Film Straniero ai Nastri d’Argento del 12. Poi nel 13 ha scritto e diretto “Il passato” con Bérenice Béjo, prodotto anche da italiani. Anch’esso un’operazione culturalmente riuscita. Il senso di questa scheda è che siamo di fronte ad un autore serio, talentoso e impegnato. Che fa dei bei film. Che persegue una sua coerente e costante ispirazione: ma lo fa variandone i contenuti e adeguandovi il linguaggio. Anche in questo film (IRAN-FRA, 16), da lui scritto e diretto, “sembra” di partire dalla solita vicenda privata-intimistica: la donna ha subito un qualche oltraggio da questo sopraggiunto cliente, di cui non conosciamo la natura. Ciò rende ancora più misteriosa e devastante l’intrusione. Ma, a parte i problemi di censura (in Iran è vietato fare anche solo fare accenno a violenze sessuali), la modalità metaforica diventa molto più stringente e narrativamente potente. Ricorda come nello stesso cinema USA degli anni 40 e 50, in pieno implacabile “Codice Hays” di autocensura, come nella letteratura dell’età vittoriana, il non detto divenisse non solo molto più intrigante e suggestivo dal punto di vista della sensualità manifestata per “via interiore” (ovvero senza ostentazione di nudi); ma anche come si “caricasse” di contenuti di raffinata e spesso più multiforme allusività. Come si vede, sono scelte registiche che vengono da lontano, culturalmente e professionalmente. Del resto qui la vicenda è caricata di numerosi fattori che, pur se strettamente radicati al destino dei due, suscitano molte riflessioni collaterali. Fin dall’inizio, abbiamo l’idea di una Teheran in totale mobilità sociale: loro se ne vanno perché una ruspa sta scavando il terreno per creare nuove fondazioni per altri edifici. Loro stessi sono culturalmente e consumisticamente evoluti: lui è docente in una classe rigorosamente segregata sessualmente (solo maschi). Anche se non sono ricchi, appartengono ad una numerosa, sviluppata e affluente middle class giovanile che sta caratterizzando l’evoluzione, magari un po’ sul caotico, sociale e demografica della Repubblica Islamica. E, anche se non si parla di politica, le istituzioni statali si situano come su un altro pianeta, rispetto ai loro ritmi di vita e di lavoro: il che, di fatto, equivale ad un giudizio politico; infatti, nel film non si rivolgono alla polizia, per diffidenza. In più sono tutti e due attori teatrali. Ed è molto importante questa dimensione narrativa parallela: come anche la scelta del testo che in modalità semi sperimentale viene messo in scena: “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller. E non a caso il titolo originale internazionale del film è “The Salesman”, appunto “commesso viaggiatore”. E cosa vorrebbe dirci? Il regista non ha dato spiegazioni univoche: ha solo ribadito l’importanza della scelta. Credo quindi che la natura del commesso viaggiatore, cioè di viaggiare sempre, sia connessa metaforicamente al continuo spostarsi per il mondo del regista stesso: ma che ritorna sempre “a casa”, cioè in patria, cui è fortissimamente legato. Ma nel film l’ultima scena della piéce che noi vediamo, riguarda il momento in cui muore, ma “la casa è stata riscattata” dal mutuo: cioè il suo “girare” e “vendere” la sua “mercanzia”, cioè la cultura, finirà, perché casa sua, cioè l’Iran, non ha più debiti ideologici che ne impediscono la crescita civile, economica e democratica: ma sarà troppo tardi per lui. Credo che sia, sottotraccia, una riflessione amara sulla sua natura di esule/non esule della cultura iraniana. Ma la vicenda della coppia rispetto alla violenza subita da lei continua, invertendo i ruoli, come a teatro: anche questo è un punto di riferimento al gioco scenico. Per cui sul finale, è lui che cerca di lavarsi “e’ schiaff’ r’a’ faccia”, mentre la donna si rende conto che deve perdonare: mentre prima il comportamento di lui era meno comprensivo nei confronti di lei, ora è giunto, per involuzione psicologica, a cogliere quasi solo un aspetto di orgoglio mascolino ferito. E poi “il colpevole” è anch’esso una vittima: confuso e in cerca di comprensione e anch’egli di perdono. Da questa dialettica nasce il finale aperto del film: soluzione un po’ tipica del cinema di Farhadi. Ma che restituisce il senso circolare dell’esistenza: anzi, anche visivamente è abbastanza insistita la metafora della circolarità, tipica forma di considerazione dell’umanità (basti pensare al cinema di K. Kieslowski). D’altronde la casa è posta su un punto di grande panoramicità urbana: su un ballatoio aperto, come sospeso sul vuoto e su un incrocio con diverse strade. Gli attori sono di grande presenza scenica e bravissimi: lei, Taraneh Aldoosti, la cui sensibilità non offusca né la bellezza, né la ricca complessità caratteriale; lui è Shahab Hosseini: varia e muta psicologia nel corso della narrazione: tutti e due attori, molto noti anche in Iran e fuori, che hanno già lavorato col regista.

Francesco Capozzi

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