Piuma

Nella Roma di oggi un po’ periferica, Ferro e Cate, due diciottenni ancora studenti, sono alle prese con la maternità di Cate. Le due famiglie, pur con difficoltà, li sostengono. “In un mondo confuso e spaventato non ci resta che avere lo sguardo un po’ incosciente del sognatore (…), come fanno i protagonisti”: queste le parole, con cui ne ha sintetizzato efficacemente il senso, del regista del film (ITA, 16) Roan Johnson (di padre inglese, di madre leccese, con studi a Pisa e diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma come sceneggiatore), anche sceneggiatore con Ottavia Madeddu, Carlotta Massimi e Davide Lantieri. La riuscita del film è nel fatto che le scelte, piuttosto nette e controcorrente dei due ragazzi, sono fatte con leggerezza, ma non superficiale consapevolezza. Sono ragazzi immersi nella corrente del loro essere giovani: ma non sono massificati; affrontano con chiarezza (relativa) i loro futuro con la bimba che verrà. C’è la battuta finale di Cate che, lucidamente, con quella cognizione che spesso è in capo all’universo femminile, affronta il loro futuro di coppia: “Anche se noi ci lasceremo tra dieci o cinque anni, la bambina resterà tra noi”. Non è la promessa di un amore eterno, che li accomuna; ma la ricerca di un affetto tra i due in relazione alla bimba, questa nuova esistenza che loro chiameranno Piuma. Perché è l’unico modo per sottrarsi all’annullamento di destini già scritti, che ci vengono presentati come “libere scelte”: di affermazioni di puro e semplice egoismo e consumismo che prevede l’annullamento della presenza di questa nuova vita. Non c’è alcun sottofondo ideologico, di tipo antiabortista, per intenderci: ma la piana acquisizione e l’accettazione di una scelta. Su questo versante il film glissa con molta eleganza: perché essa è già data per acquisita. Del resto Cate ha davanti a sé la sua “non famiglia”, di un padre separato che “una ne fa e cento ne pensa”, scelte una più bislacca e distruttiva dell’altra. Lei lo accetta, senza condiscendenza, ma con distacco e assuefazione. Più sana la famiglia di Ferro: in particolare la madre (l’attrice, molto brava, Michela Cescon) esprime, con semplicità e forza di scrittura, in sede di sceneggiatura, una comprensione più inclusiva e profonda; e supera le difficoltà che le frappone il marito toscanaccio eterno brontolone borbottone, che poi in realtà “educa” e trasforma, verso scelte più meditate e generose. A lui, l’attore scafato e esperto Luigi Pierattini, si devono peraltro, non pochi spunti comici azzeccati. E comunque in generale ben orchestrati nei tempi dal montaggio di Paolo Landolfi e Davide Vizzini. I due ragazzi non sono eroi; ma genuine persone che decidono in modo diverso da come ci si sarebbe aspettato. Essi vivono in una dimensione periferica della città: che è descritta scenograficamente con una propria identità, per quanto non banale: lo scenografo Mauro Vanzati e il Direttore della foto Davide Manca hanno fatto un apprezzabile  lavoro: una dimensione metropolitana attuale e contemporanea, in cui i colori e le dimensioni tutte (sia in interni che in esterni) erano strutturati in un’atmosfera generale accogliente e amichevole, benché solidamente piccolo borghese, senza svenevolezze o ammiccamenti radical chic. Ferro, simpatico e simil-ribelle, ma con sentimenti profondi, l’attore Luigi Fedele, ha verso Cate un affetto di una generosità e di un’intelligenza esemplari, che colgono la ricchezza delle loro rispettive sensibilità e le arricchiscono; dando loro la forza di sostenere una scelta così difficile. E’ chiaro che il centro della narrazione è la ragazza, l’attrice Blu Yoshimi Di Martino, attiva dall’età di 10 anni in “Caos calmo”: mette insieme fascino profondo, personalità e sensibilità. E’ l’uso nel film in chiave di metafora e di favola, con poetici e non gratuiti risvolti onirici, della vera notizia del carico di paperelle di plastica, a darci un sentimento di flusso della vita, fatta propria dagli autori, che può suggerire un orizzonte e una portata di senso più generale, per non dire filosofica. Del resto ribadita in alcune sequenze acquatiche, affascinanti e stranianti, ma molto appropriate nel supportare questo tipo di riflessione; realizzate inoltre con effetti speciali di efficacia narrativa molto funzionale. Questi pupazzetti di plastica, persi nell’Oceano Pacifico, ma sempliciotte e inaffondabili, hanno permesso di ricostruire con precisione la portata e i tempi delle correnti oceaniche, che essi seguivano con tenera, pascoliana e perfino comica, ma inarrestabile e incoercibile continuità, poi “premiata” e utilizzata in sede scientifica. Come si vede, siamo lontani dalla “cattiveria” della grande tradizione della Commedia all’Italiana, a cui pure il film fa riferimento: questo non cinismo è un approccio propriamente scelto dal regista in sede di drammaturgia. Ma nemmeno siamo sul buonismo: ad esempio, il personaggio del padre di lei appare irredimibile: non c’è un happy end facile, univoco e scontato, ma le incognite di un futuro aperto. Presentato in Concorso a Venezia 16, ha suscitato perplessità perché era film leggero: mentre invece è stata una scelta oculata e stimolante. Perché è una bella commedia, “umana”, originale e divertente.

Francesco Capozzi

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