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Siamo tutti ciechi

“Ho visto occhi lacrimare/ Non sapendo più guardare/ Si sono chiusi tra la confusione/ …” (Elisa, Lontano da qui)

“I miei abiti odorano di te/ E le fotografie dicono che siamo ancora giovani/ Fingo di non essere ferita/ cammino per il mondo come se mi divertissi/ E faccio la matta ogni venerdì sera …” (Lana Del Rey, Body electric)

“Un giorno un ramo danneggiò il mio occhio sinistro… per mesi, ho osservato il mondo con un solo occhio, finché un giorno una mina abbandonata danneggiò pure il mio occhio destro. Non sono diventato cieco subito ma a poco a poco, è andata avanti per mesi, come se si trattasse di un lungo addio alla luce. Così nel frangente ho dovuto catturare rapidamente le cose più belle, le immagini di libri, colori e fenomeni celesti, e di portarli con me in un viaggio di non ritorno”. (Evgen Bavčar, Nostalgia della luce – F. Motta Editore, 1995)

FOTOGRAFARE: SIAMO TUTTI CIECHI

Nell’elenco di ciò che non esiste, dando per buona la definizione che tale è quel che non si vede e non si tocca, c’è la luce. 

La luce, dunque, da fattore invisibile e incorporeo, disegna il mondo sensibile. In sostanza sembrerebbe conferire, attraverso i suoi riflessi, materia e corpo a qualcosa che, invece, si potrebbe percepire integralmente anche con il tatto o con l’odorato e così via. Il buio, d’altronde, avvolge e può comprendere il tutto, sia ciò che si è visto che quel che è rimasto celato a ognuno. È così come con il silenzio: contiene altri suoni sentiti da altri esseri viventi e da noi no, ciò non significa che non vi sarebbero strumenti adeguati per utilizzare quelle altre colonne sonore della vita. Purtroppo molto di ciò che ci circonda va perduto e accade sia per le nostre limitazioni fisiche che per la disattenzione. Quel che serve, quindi, è avere consapevolezza di quel che si cerca, fotocamera in mano. Detta con l’accetta: si cerca quel che ci è noto, anche se capita di scattare e ritrovare nei riflessi elementi estranei, mai osservati. Lo sguardo fotografico ci fa intuire quando sia necessario scattare, quando sarà possibile rappresentare una bella prospettiva o una narrazione in un solo fotogramma … è una ricchezza individuale ma potrebbe non bastare a raggiungere il massimo possibile, a realizzare la fotografia irrinunciabile. In ogni caso è la mente a vedere, così come accade di identificare la propria mano nel buio assoluto. Si tratta della cosiddetta illusione dello speleologo, approfondita in un recente studio americano, pubblicato nella rivista Psycological Science di cui si dà atto, anche con significative immagini, qui.

Partendo dalla convinzione di essere incapaci di cogliere tutto, si deve necessariamente concludere che l’organo della vista non basta per fotografare. Siamo tutti ciechi, almeno rispetto a parte del mondo materiale. Pertanto, non è paradossale né eretico pensare che si potrebbe fare a meno degli occhi. Ciò implica che si possa migliorare la propria condizione di fotografo cieco, recuperando parte delle facoltà teoricamente essenziali. Si potrebbe iniziare acquisendo l’esattezza dei significati di certi fonemi. Vedere, guardare, osservare, intuire … è faccenda su cui potrebbero tenere lezioni profondissime i non vedenti e, in ogni caso, sono tutte componenti del processo che si innesta quando si fotografa. 

Date queste premesse, non sorprende il fatto che molti non vedenti siano ottimi fotografi. Uno è Evgen Bavčar. Chi ebbe modo di vedere le sue opere nel Museo di Roma, Trastevere, mostra Il buio è uno spazio, curata da Enrica Viganò, è difficile che non abbia provato stupore, meraviglia e forse invidia. Si trattava di foto che entravano nella realtà percepibile non diversamente da quelle scattate dai grandi Maestri di sempre ma con un approccio che qualcuno ha definito mistico. Altri casi: Gary Anderson, cui nel 2010 fu diagnosticato un glaucoma e Pete Eckert, premio Exposure nel 2008 (è una competizione creata da Artists Wanted, gruppo nato nel 2006 da una idea di William Etundi e Jason Goodman, realizzata con varie istituzioni culturali New York allo scopo di scoprire talenti della scena artistica internazionale), di cui si può leggere qui.

Come si può intuire, non si tratta di sminuire la vista come organo necessario alla fotografia ma solo segnalare che attraverso altre vie si può giungere alla possibilità di coltivare una passione o continuare una professione, come è stato nel caso di Gary Anderson che ha imparato a contare sull’udito o di Pete Eckert che ha sfruttato e sfrutta le potenzialità di una fotocamera a raggi infrarossi. 

D’altronde, se il vedente guarda le nuvole o una macchia di umido o una muffa o le stalattiti e le stalagmiti di una grotta, individuandovi il volto di un santo (o un mostro, o un animale, per non dire dei fantasmi, sempre di pareidolia si tratterebbe. Si può approfondire qui), ben può immaginarsi che un non vedente, toccando la stessa muffa o un tronco (o sentendone l’odore), potrà credere di aver visto cose simili. La fotografia di questi fenomeni, seppure siano poggiati su meccanismi psicologici e subconsci, confermerà o meno le sensazioni ma potrà anche aggiungerne altre. Questa strada analitica conduce alla necessità di essere muniti della giusta sensibilità per realizzare fotografie non banali. Si tratta di un percorso che inizia, se si vuole, quando si scatta la prima volta ma la fine non si raggiunge mai. In realtà, tutti ne realizziamo. Solo una selezione rigida e adeguata agli obiettivi assegnati può avvicinare alla soddisfazione. Può accadere anche che una foto brutta, mal realizzata, piena di difetti, sia utile allo scopo. Si pensi a un reportage che debba illustrare le condizioni di Madre Terra. Non è detto che siano da preferirsi solo fotografie perfette. Sembrerà strano ma anche un cielo pieno di rumore, a fronte di un mare chiaramente inquinato, potrà suggerire l’idea che come è in terra, e in mare, così è in cielo … D’altronde, volendo adeguarsi a opposti estremismi, tipo il vedente e il non vedente, talvolta si possono sperimentare condizioni fisiche che daranno rilievo a ben altro che alla grana di una immagine. Non costerebbe nulla, a esempio, bendarsi e scattare fotografie cercando di appropriarsi degli strumenti di cui dispone Evgen Bavčar. Egli gioca sul ricordo (nacque vedente) e, come ha dichiarato, lavora con l’autofocus. Non gli serve altro. Egli, ogni volta che scatta, si è già impadronito del mondo che lo circonda. Conosce il contesto in cui è il soggetto prescelto per rappresentarne i riflessi che la sua luce saprà cogliere, a uso e consumo dei vedenti. Se è vero, ed è sempre vero, che in ogni scatto c’è anche il fotografo, pur non apparendo in scena, con la sua capacità percettiva, Evgen Bavčar è distinguibilissimo in ogni foto realizzata. Il suo mondo, ben diverso da quello raccontato da un reporter, ci appartiene nel momento in cui ne guardiamo i riflessi e non ci vuole molto a capire perché dichiara di essere una camera oscura. Egli mette in scena ciò che prende corpo davanti ai nostri occhi quando guardiamo le sue foto ed è, pertanto, esistente in quanto è fotografato. Non avremmo mai potuto immaginare quella realtà fatta di immagini sepolte dentro ognuno, forse già viste o immaginate da bambini. 

Analizzando le foto di questi particolari fotografi, resta la sensazione che Madre Terra e le situazioni che l’essere umano sa creare quotidianamente, giochino alle tre carte. A ben vedere è sempre così. Osservare le foto, sia le proprie che quelle degli altri, significa essere alla ricerca della carta vincente. È quella che emoziona, è quella la vincente. Naturalmente è sempre più difficile trovarne di innovative e l’immane numero di immagini che si realizzano in ogni attimo complicano la faccenda. Una buona scorciatoia potrebbe essere rappresentata dal dettarsi dei temi e da lì partire alla ricerca sia per mostre che nel web.

Farlo adesso significa interrogarsi su cosa si stia rivolgendo l’interesse dei fotografi e, pertanto, dove stia andando la fotografia, quali siano le nuove frontiere. Forse si potrà intuire gli scenari futuri.

A un primo impatto si nota un puzzle frantumato in miliardi di pezzi. È la vita complessiva, sviluppatasi davanti all’umanità. Nessun essere umano potrà percepirla complessivamente e, quindi, sarà altamente istruttivo osservarne le infinite possibilità. Si potrebbe opinare, però, che in tutta la produzione di immagini ci siano molti labirinti, molti mondi possibili e addirittura solo fantasticati, dominati da specchi più o meno deformanti, sospesi. Sarà possibile, quindi, rinvenire poesia, surrealismo, contrasti drammatici, affetto o odio intensi, rappresentazioni veritiere o bugiarde della realtà, amara delusione o facili entusiasmi … Ci vuole poco a rilevare che c’è tutto e il suo contrario anche perché possono essere diverse e contrastanti le scelte di valore di chi fotografa. 

Si tratta di andare alla ricerca per capitoli, tentando di individuare l’essenza, il tipo di riflessione che ogni fotografo ha voluto proporre. Ciò implica la certezza che si resterà nel tema che è specifico, pur quando certe suggestioni, con evidenti allusioni, ci trasferiscono in altre arti visive. Un esempio che potrebbe valere per tutte le fotografie è nella analisi di un movimento pittorico, il Surrealismo. È sufficiente considerare l’opera Ceci n’est pas une pipe di René Magritte. L’autore svela subito, sin dal titolo, il rapporto tra linguaggio e immagine. Lo fa ironicamente e forse creando anche un leggero sbandamento nell’osservatore distratto che potrebbe urlare: Come, non è una pipa quella? Dimenticando che si tratta solo di una sua perfetta riproduzione, che si sta solo osservando una sua immagine bidimensionale. 

Si potrebbe estendere questo concetto intervenendo, a esempio, nel tema della crisi economica. Possibile farlo utilizzando soprattutto le fabbriche abbandonate (archeologia industriale), sapendo che nessuna fotografia sarà mai in grado di farci dire questa è una fabbrica. Ci sarà lo stesso il senso di abbandono, si starà raccontando la verità materiale anche se in nessuna foto c’è la fabbrica! Ciò non toglie che si documenti potentemente un fenomeno con l’immagine solo bidimensionale. Sta al fotografo, poi, farlo con una modalità o con un’altra, far vedere la bellezza delle forme di un opificio industriale, anche se è abbandonato, oppure la fatiscenza, la sporcizia, la ruggine e così via, privilegiando la nostalgia di un mondo mitizzato (quello dell’industria che dà benessere) o lasciando immaginare lo sfruttamento e la mai dimenticata povertà di chi vi ha lavorato. Con questa operazione si potrebbe colmare il vuoto istituzionale, una assenza che si nota. Non è neppure complicato farlo. Basterebbe percorrere l’Autostrada del Sole. Non si noterebbero solo le belle forme architettoniche, tipo il ponte progettato da Calatrava tra Bologna e Parma ma anche tante fabbriche nate con colori sgargianti, per suggerire solo sensazioni positive sia rispetto al lavorarci che ai prodotti, e ora chiaramente abbandonate, sbiadite come tanti sogni. Sarà possibile anche individuare clamorose strutture incompiute, come nei pressi di Roma e non occorre dire quali siano né dove si trovino esattamente. Basterà solo impiegare un po’ di attenzione. 

Un altro tema potrebbe essere la guerra e va sin da subito segnalato che sarebbe difficile, volendo affrontarlo anche in termini di attualità, sfuggire alla voglia di intervenire con declinazioni moderne, usando, a esempio, anche il paradosso così come fanno Adam Broomberg e Oliver Chanarin. Sono stati fotografi di guerra al seguito delle truppe britanniche in Afganistan. Il loro lavoro The Brother’s Suicide si può conoscerlo qui.

Si potrebbero fare tanti altri esempi e tanti nomi. Si può anche tentare di partire dai nomi, alla rinfusa, per ricostruire nel web le tematiche che li caratterizza. Da queste si può iniziare a immaginare un complesso di immagini da cui sarà partorita la nuova fotografia, quella che andrà esposta e vista a occhi chiusi, si fa per dire: Tim Davis, Guido Guidi, Graciela Iturbide, Sandra S. Phillips, Joshua Chuang, Patrick Faigenbaum, Gerry Badger, Paolo Pellegrin, Elena Givone, Jacqueline Hassink, Brigitte Grignet, Rafal Milach … 

Altro discorso andrebbe svolto sulle cosiddette foto social che documentano il processo di democratizzazione indubbiamente vissuto dalla fotografia e che nei social pare aver trovato lo sbocco naturale. Sarebbe forse troppo presto, troppo superficiale affrontare un tema che si sta evolvendo velocissimamente. Si soprassiede ma volendo farlo si potrebbe iniziare da un nome: Adele Sarno …

Ci sono, per concludere, fini operatori nel mondo dell’immagine che fanno già storia a sé. Anche se giovani, alcuni andrebbero studiati per la magistralità dei gesti d’arte. Uno per tutti: Emanuele Spano, classe 1978. La sua ricerca artistica è radicata in esperienze significative e proiettata in una sperimentazione non velleitaria. I risultati già conseguiti nell’alveo dei cosiddetti nuovi linguaggi artistici, sono tra i più significativi in assoluto. Nel web è possibile verificare come essi abbiano senso speciale perché soddisfatto sia la critica che il pubblico, come è accaduto con la sua vittoria nel Us Award 2011 del Sole 24 Ore. Rispetto a Emanuele Spano le definizioni potrebbero, in fondo, essere inutili. È certamente un Visual designer, un Photographer, uno Street Photographer … ma è proprio in questo caso che si può comprendere come esistano artisti a tutto tondo, che non andrebbero confinarli in un luogo geografico, figuriamoci se non stia stretta una definizione che li releghi in un genere o in una sola espressione del complesso mondo dell’immagine. Si potrebbe riferirsi alla creatività tout court. Quando questa si basa su studio e sperimentazione, non presta il fianco a nessuna perplessità. Sarà possibile trovare altro spazio per ulteriori approfondimenti stilistici e di sostanza, sia da parte dello stesso artista che di suoi epigoni, ma in ciò è il senso proprio dell’arte fotografica: anche quando si è di fronte a un progetto complessivo, profondo, come nel caso delle sue creature note come Postfordist Reality, si intuirà il messaggio portato sia da ogni singolo fotogramma che dal progetto intero. Quel significato potrà in ogni momento essere rilanciato, integrando il messaggio stesso che era e resterà comunque valido. Per approfondirlo basta accedere nel web e si può iniziare a farlo scoprendo il suo progetto I’m where I live (una factory collocata a Muro Leccese) e il sito ufficiale.

Alessia Orlando e
Michela Orlando

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