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La fotografia è militanza

“Attingo dal presente. Osservo quello che è sotto gli occhi di tutti. Scelgo tra parole, figure, segni che rappresentano il nostro tempo. Insomma, scavo, riunisco, scarto, raccolgo ogni tipo di materiale dentro un muro di carta. Una specie di lavoro archeologico sul nostro presente” (Gianluigi Colin).

LA FOTOGRAFIA È MILITANZA – UNA DENUNCIA

L’8 novembre 2011 Napoli fu arricchita dalla mostra DÈI, al Museo MADRE. Ospiti, con pregevolissimi interventi, da definirsi “speciali” con entusiasmo e senza alcuna riserva: Gillo Dorfles, Vincenzo Trione, Matteo Collura, Eva Cantarella. Se è vero, come fu dato rilevare dalla presentazione della mostra, che “Il mito è un universo di frammenti, di storie e di illuminazioni. Quasi sempre è animato da esseri straordinari, irraggiungibili divinità o più avvicinabili semidei, spesso da eroi, ma qualcuno, è anche un semplice e più terreno umano”. Rivelatrice la battuta di Jung: “I miti sono diventati malattie per raccontare come il racconto del mito vive ancor oggi nella nostra quotidianità e condiziona i nostri modi d’essere, la nostra vita, i comportamenti sociali, culturali e politici”, allora si tratta ancora una volta di ‘analizzare’ la società, attraverso le scelte dei fotografi. La volontà di almeno sfiorare l’argomento, implica l’adesione al tema dettato da Gianluigi Colin: entrare nella analisi del dialogo tra storia della classicità e valori della contemporaneità.

Tanto più che (sempre dalla presentazione): “Il mito è un insieme di racconti fantastici che da sempre trova corrispondenza nella poesia, nella letteratura e nelle arti. Ma quali sono oggi gli dei che (anche inconsapevolmente) veneriamo? Non parliamo sempre di potere, denaro bellezza? E non vediamo sulle pagine dei giornali sempre più titoli che ci parlano di guerra? Non viviamo in luoghi (fisici e mentali) nei quali ci perdiamo, non ci riconosciamo, manchiamo di identità? E questo, forse, proprio il labirinto del nostro esistere, nel quale ci sentiamo come Teseo alla disperata ricerca di un’Arianna che ci aiuti a trovare una via d’uscita. Una salvezza”.

Il virgolettato svela con esattezza le riflessioni di Gianluigi Colin che, non solo in quella mostra, affrontava il tema del mondo sistematicamente generato in ogni essere umano. Accade anche inconsapevolmente ma le tracce dell’evento, muovendo da strati della coscienza più o meno profondi, si evidenziano sempre, con minore o maggiore clamore.

Della messa in scena di Colin, Vincenzo Trione evidenziò l’originale strategia: “Per dar vita ai suoi affreschi inesatti, imperfetti, sgrammaticati, ricorre a una tecnica complessa, fondata sull’incontro tra ricognizione e reportage. Dapprima, si sfogliano i quotidiani; poi, si prelevano pagine su cui appaiono immagini “rivelatrici”; poi, si accartocciamo quei fogli, con un gesto di intolleranza morale; poi, si fotografano questi ‘stropicciamenti’; poi, si stampa il file su carta di giornale, che viene appiccicata su un letto fatto a sua volta di sedimentazioni di carte di giornali (una sorta di ‘riscrittura’ della tecnica classica dell’imprimitura); infine, con impeto, si interviene con le mani su questo materiale, con ulteriori piegature. L’approdo. Un tessuto increspato, che sta per strapparsi. Un mare agitato da onde. L’opera acquista un’inattesa consistenza plastica”. 

La ricerca posta a base di quella mostra era in perfetta sintonia con quella più ampia dell’artista che analizza da tempo il rapporto immagini/parole. Egli parte da una profonda opera di scavo nel passato per giungere al senso della rappresentazione e alla sovrapposizione di strati nello sguardo. In sintesi, si tratta di allusioni alla storia dell’arte e alla cronaca recente. Di questa operazione è fondamentale raccogliere una suggestione di straordinario senso: i confini tra epoche si sono rarefatti. Da ciò una indicazione di fondo: occorre mettere nel proprio fare arte, o almeno tentarlo, impegno civile ed etico. Occorre, in sintesi, scendere in campo con atteggiamento militante.

Pertanto, si dovrebbe trattare di uscire di casa con la propria fotocamera e tentare di realizzare un progetto ogni volta con consapevolezza e conoscenza dei problemi.

Conterebbe poco se la sintassi fotografica fosse ingenua e addirittura politicamente scorretta e il risultato ‘inesatto’, ‘imperfetto’, ‘sgrammaticato’, come l’opera del Colin analizzata da Vincenzo Trione.

In realtà non accade spesso che lo scatto sia preceduto da uno studio, dalla conoscenza, da scelte di valore. Purtroppo il fotografo sensibile e consapevole è solo. La volontà di documentare, anche rischiando l’incolumità, compete solo a sé stesso e conta poco se si tratti di un fotografo professionista o fotoamatore e addirittura se si tratti di un fotografo occasionale che usi la fotocamera del telefono cellulare. 

D’altronde, pur limitando l’analisi all’Italia e senza considerare i Paesi in guerra o le zone calde anche in Italia (Pantelleria, zone interessate dalla Tav …), ci sarebbe da realizzare moltissimi progetti fotografici capaci di contenere le medesime scelte etiche di Gianluigi Colin. Si pensi alla crisi economica e ai suoi sintomi: la povertà dilagante, la cultura emarginata, l’abbrutimento nei rapporti umani, l’inquinamento e l’abbandono in cui versa l’ambiente, la malattia che non può essere curata … 

Non potendosi analizzare i molteplici aspetti in questa sede, limitando l’analisi alla crisi economica e alla povertà, va denunziata l’assenza delle Istituzioni. 

Questa crisi estrema, che da sin troppo tempo attanaglia le classi meno abbienti, non è certo la prima. In quella del ’29, ovviamente del Ventesimo secolo, il governo americano commissionò a numerosi giovani fotografi di documentare la povertà. Era il 1935 e nacque la Istituzione nota come Rural Resettlement Administration (Agenzia per il riassetto agricolo). Aveva l’obiettivo di documentare la situazione del settore agricolo nel periodo della grande riforma del New Deal promossa dal Presidente Franklin Delano Roosevelt. Ciò era apparso necessario per tentare di dare una risposta agli stati agricoli del centro e del centro sud, colpiti dalla siccità e dalla recessione economica. 

Il risultato fu un reportage collettivo straordinariamente efficace che si può ancora ammirare. 

Tuttavia, anche senza accedere nella pagine del Fondo, non c’è nessuno che abbia minimamente approfondito la Fotografia che non conosca Dorothea Lange e la sua foto MADRE MIGRANTE. I giovani assunti: Arthur Rothstein (fu il primo a essere selezionato per coordinare il progetto), Walker Evans e Paul Carter. In seguito furono assunti anche fotografi già noti come Ben Shahn, Carl Mydans, Marion P.Wolcott, Jack Delano, Edwin Rosskam, John Vachon, John Collier, Gordon Parks, Marjoire Collins, Peter Horne, Russel Lee, Todd Webb, Theodore Jung e tanti altri. 

Il tema, ovviamente, supera il senso del mero narcisismo di qualcuno che voglia essere fotografato e del fotografo cinico. La fotografia assume il ruolo di documentazione essenziale. Si amplificano le capacità di far dilagare la presa di coscienza, superando di gran lunga, in termini di efficacia, le potenzialità della parola scritta o urlata.

Il fotografo, d’altro canto, potrebbe rispondere, seppure molto tempo dopo, a Baudelaire che, pur facendosi fotografare da Daguerre e Nadar, definiva i fotografi ‘pittori falliti’ e privi di abilità. Pur conservando validità, la convinzione di Henry Cartier Bresson (“Le fotografie possono raggiungere l’eternità attraverso il momento”), le fotografie potrebbero isolare momenti e segmenti di vita con capacità di smuovere le coscienze e produrre risultati sia nel breve che medio e lungo periodo, contribuendo a formare visivamente la memoria collettiva. È, quest’ultima, una loro attitudine che può emergere al di là delle intenzioni di chi fotografi. 

In conclusione: a fronte delle reiterate assenze delle istituzioni che indubbiamente trascurano l’obbligo di individuare fotografi e artisti capaci di trattare il tema della crisi in maniera da sviluppare la coscienza etica, vanno registrati formidabili iniziative nel privato. Una su tutte è sintetizzata nel concorso fotografico LA CITTÀ NUDA, “(…) concorso fotografico internazionale e (…) una mostra di fotografia itinerante la cui prima tappa sarà il Comune di Cagliari. Seguiranno una serie di conferenze e dibattiti che svilupperanno il tema del rapporto tra Architettura e Uomo. La partecipazione all’iniziativa non è limitata agli addetti ai lavori ma si propone di aprirsi a chiunque abbia interesse e curiosità verso queste tematiche”, nato dallo spirito di iniziativa di studenti e neo-laureati in Architettura del Politecnico di Torino che delimitano il tema con parole inequivocabili. “L’obbiettivo è sviluppare un dibattito plurale ed aperto a tutti, cercando di superare i limiti di autoreferenzialità, a volte eccessivi, del mondo dell’Architettura. Vi invitiamo a percepire questo concorso come il punto di inizio che potrà dare vita a diverse suggestioni per i successivi dibattiti. Partecipate con la consapevolezza che il vostro modo di vedere e interpretare la Città sarà per noi motivo di studio e di ragionamento”, ponendosi in una posizione che in controluce risulta coerente con una presa di coscienza da condividere e diffondere, caso mai affiancandoli con iniziative similari. Il tema, dunque, ruota certamente attorno alla città, intesa come assieme di linee e volumi, ma legata all’uomo che la determina e la vive o subisce, anche problematicamente.

Alessia Orlando e 
Michela Orlando

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