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Fotografare l’arte

“Se vuoi crescere e imparare, guarda dove i tuoi occhi non vedono” (antico proverbio inca/peruviano).

“Questo è il momento della verità, ragazzi … Ricordate la regola numero uno? Noi non facciamo arte… noi facciamo cadaveri” (da ‘Orfani, piccoli spaventati guerrieri’, n.1, Sergio Bonelli Editore).

FOTOGRAFARE L’ARTE

Quando la mente se ne va per la tangente e ti prendi un bernoccolo che implica la passione è inutile resistere al Via col vento.

Incipit criptico, forse, ma chi ha sperimentato gli improvvisi amori verso un genere di fotografia sa bene quanto poi il solco sia profondo e difficile da colmare. D’altronde: perché farlo? Perché resistere all’impetuoso innamoramento? Siamo nel tema fotografia e, pertanto, i rischi sono calcolati. Nessuno disporrà il ricovero coatto solo perché, a esempio, si è deciso di alzare i tacchi e andare a fotografare le opere d’arte chiuse in un museo, magari anche quelle che qualcuno ha messo negli scantinati e che pochissimi tra gli essere umani attualmente viventi ha visto (è il caso della Galleria degli Uffizi, Firenze, ma non solo), o quella torre che una volta pendeva di più e che adesso pare essere in sicurezza o le tavole originali di un fumetto di successo.

Siamo, dunque, in un tema sensibile se pensiamo alla carta da fotografia, ma non cambia il destino del mondo se ogni tanto si intraprendono azioni con un po’ di leggerezza. Ci sono ben altre faccende che richiedono ponderazione e non ci si può lasciare andare, non si può imboccare la tangenziale ed è meglio essere razionali. Anche il web è pieno di esempi: amori vacui, convinzioni balorde eppure sempre in prima pagina e agitate nei vari salotti televisivi. Una per tutte che in molti dovrebbero ricordare: la fine del mondo più volte profetizzata negli anni scorsi ma era già stato fatto da tanti altri prima, a esempio dallo psicologo Leon Festinger nel 1954. Aveva profetizzato, va da sé, la fine del mondo per la notte del 21 dicembre, dopo che si era unito a una setta di Chicago nata dalla mente di una che dichiarava di parlare con gli alieni. E sin qui nulla da dire, visto che c’è chi parla con i morti e gli alieni si presume siano in vita. Il problema è che la fine del mondo non giunse (dispiace veramente siano rimasti delusi, soprattutto per Festinger, che aveva anche preparato tutto per salvare gli adepti con una nave spaziale aliena) e non mancò la faccia di corno che dichiarò, usando parole diverse ma il senso è quello: Ci è giunto un messaggio alieno. Il mondo è stato salvato grazie alla forza spirituale del nostro gruppo. La conseguenza: chi aveva venduto i beni terreni per la trasmigrazione, rimase fregato ma, di tutta risposta, anziché aprirsi un problema per la setta, aumentarono le adesioni. Per approfondimenti si segnala Mente e psiche di Daniela Ovadia, dove si evidenzia anche: … questa storia è stata raccontata con molti particolari anche in Unscientific America (uscito nel 2009) scritto da due giornalisti americani, Chris Mooney e Sheril Kirshenbaum.

Nel caso della fotografia, invece, per ogni genere e anche per quella che si occupa di riprendere le opere d’arte, nessuno dovrà vendere alcunché. Si potrà restare con i piedi ben piantati su Madre Terra e anche sulla più volgare terra (utilissimo avere la mano ferma e ciò è possibile anche curando la posizione dei piedi).

Certo, gli specialisti sono dotati di fotocamere e attrezzature varie da sogno; i comuni mortali, i fotoamatori, non dovranno tuttavia neppure invidiarli. Non è detto che non si riesca a fotografare decorosamente, in ogni caso in maniera tale da restarne soddisfatti, anche con la propria compatta. I cenni di approfondimenti tecnici, dunque, riguardano specialmente chi voglia essere più professionale ma sono utili anche a chi voglia solo far lievitare verso la consapevolezza l’approccio allo scatto.

Premessa la sostanziale differenza ma anche la sussistenza di almeno un punto di incontro tra il fotografare l’arte e la foto artistica, è ovvio che fotografare una foto artistica implichi la conoscenza di rudimenti e regole fondamentali. Si immagini la possibilità di ritornare indietro nel tempo, per essere presenti alla prima mostra fotografica, attrezzati con una fotocamera digitale capace di garantire la corrispondenza speculare delle foto agli originali, sia per nitidezza che per fedeltà cromatica. È chiaro che occorrerebbe possedere anche la competenza necessaria, conoscere i personaggi presenti e, soprattutto, il fotografo: Louis Hippolite Bayard. È il vero primo fotografo, colui che giunse appunto per primo al traguardo della stampa positiva diretta, battendo anche colui che viene considerato come il primo fotografo in assoluto: Louis-Jacques-Mandé Daguerre. Siamo a Parigi, anno di grazia 1839, 24 giugno. Le foto di Bayard.

Del tutto naturale sarebbe considerare quelle fotografie come opere d’arte e quindi occorrerebbe saperle fotografare utilizzando la stessa sintassi che si applica per fotografare La Gioconda o Il Mosè, i quadri di Van Gogh, la Torre di Pisa o le tavole originali di un fumetto della Bonelli Editore e così via. Potrebbe valere anche per alcuni generi di fotografie che, seppure non siano riconducibili a fotografi famosi, rappresentino un unicum. Si pensi, a esempio, alle Polaroid.

Anche rispetto a questo evento la teoria si dividerebbe e si potrebbero aggiungere falsi problemi. Dando per scontato di aver ricevuto l’invito a esserci e di essere stati autorizzati a fotografare: quali criteri utilizzare per documentare la prima mostra fotografica? Usare o no filtri, cavalletti, ottica decentrata e così via oppure no? Possibile o no divagare rispetto al centro di interesse, le foto, dando spazio alla creatività, al proprio sguardo fotografico non isterilito, agli ospiti, all’allestimento in sé contesto compreso?

In realtà ciò che si dà per scontato è spesso l’imprevisto che andava considerato. A prescindere dal fatto che certe opere potrebbero essere danneggiate dai flash, a esempio, e ciò sarebbe superabile non usandoli, resterebbero altri problemi connessi alle questioni che oggi tutti conoscono: la tutela dei diritti dell’autore innanzitutto. Ovviamente ci sarebbero limiti pratici. Dovendosi immaginare la calca, come sempre accade negli eventi importanti, è chiaro che nessuno sarebbe in grado di allestire un set perfetto e si dovrebbe certamente escludere anche l’uso del treppiedi. Ciò non significa che di fronte alla necessità di utilizzare un tempo di ripresa abbastanza lungo ci si debba cospargere la testa di cenere, nella certezza che lo si farà come se si stesse mettendo il formaggio sui maccheroni. Si tratta di essere abituati ad avere la mano ferma, impugnando la fotocamera così come si è appreso agli inizi della propria avventura fotografica. Si cercherà di divenire monolitici, di far diventare la fotocamera una propria appendice fissa, posizionandosi in maniera stabile, a partire dai piedi, e magari appoggiandosi con la schiena o altre parti del corpo a un muro, qualora si ritenga che possa essere utile, anche per evitare spintoni. Inutile dire, come si è appreso sempre agli inizi, che occorre trattenere il respiro, senza dimenticarsi di tornare a respirare dopo lo scatto, per poter ripetere l’azione ogni volta senza morirne. Stare molto attenti a usare l’otturatore esattamente durante l’apnea ma solo con la forza necessaria per scattare, altrimenti si finirà per imprimere una energia che aggraverà anziché risolvere il problema. È il caso di chiedersi se convenga o meno scattare a raffica. Scuole di pensiero diverse si affacciano alla mente ma forse sì, forse conviene per avere almeno alcuni scatti di cui si potrà essere contenti. A meno che non si riesca a individuare un posto su cui si possa almeno poggiare la fotocamera, che non sia il vaso di Epoca Ming, per scattare con più meditazione e sicurezza, senza che qualche addetto non si approssimi a mani levate e sguardo minaccioso. In questo ultimo caso: fuggire o assumere un atteggiamento abbacchiato, riconoscendo, è ovvio, il torno ma incolpevole: la passione è passione o lo si fa per campare.

Altri limiti, oltre quelli detti e altri che imporranno i sorveglianti, sono collegati al tipo di attrezzatura: inutile organizzare un mezzo trasloco, tanto passerebbe ben poco al filtro della organizzazione e quindi è meglio abituarsi all’uso di un corpo macchina (magari conservarne un altro di riserva con annessa batteria caricata al 100%) e poche ottiche, quelle sufficienti a coprire le varie situazioni prevedibili: la necessità di fotografare i dettagli, quella di osservare e riprendere anche il contesto (in questo caso, soprattutto per riprendere anche gli ambienti, l’ottica decentrata eviterebbe le linee cadenti), almeno un obiettivo molto luminoso per riprendere le opere nella maniera più autentica possibile, considerando i riflessi qualora esse fossero coperte con il vetro (anche La Gioconda lo è e, oltretutto, è vietato fotografarla …). Naturalmente, data l’importanza dell’evento (prima mostra fotografica!), è ovvio che si sarà dedicato tempo a un sopralluogo nei giorni precedenti, che si è cercato di sapere tutto il possibile del fotografo e degli ospiti, soprattutto nell’ipotesi in cui si debba realizzare un reportage di stampo giornalistico.

In questo caso, data la natura dell’evento, si tratterebbe di scegliere con attenzione la foto da utilizzare per la presentazione del lavoro. Anche se nelle trenta opere esposte se ne potrebbero individuare molte di rilievo speciale, ce ne è una che si impone sia perché si tratta di un autoritratto che per la didascalia. Essa svela una polemica di grande importanza e mette i punti sia sul rapporto del fotografo con la politica dell’epoca che sulla gara cui ha partecipato lo stesso autore con Daguerre. Questo che vedete è il cadavere di M. Bayard, inventore del procedimento che avete appena conosciuto. Per quel che so, questo infaticabile ricercatore è stato occupato per circa tre anni con la sua scoperta. Il governo, che è stato anche troppo per il signor Daguerre, ha detto di non poter far nulla per il signor Bayard, che si è gettato in acqua per la disperazione. Oh! umana incostanza…! È stato all’obitorio per diversi giorni, e nessuno è venuto a riconoscerlo o a reclamarlo. Signore e signori, passate avanti, per non offendervi l’olfatto, avrete infatti notato che il viso e le mani di questo signore cominciano a decomporsi.

La foto titola: Autoritratto come un annegato, realizzata nel 1840.

Occorrerà porsi anche il problema del taglio da dare alle proprie foto. Ciò è necessario qualora ci si ponga il problema di creare qualcosa che risulti interessante, non ripetitiva. Per la stessa ragione conviene non limitarsi a riprodurre le opere senza mai far rilevare il contesto. Senza scendere in profondità nei particolari specialistici, come le caratteristiche da conferire alle foto per favorire l’editing a chi poi metterà sulla carta stampata le proprie foto, è chiaro che occorre sapere come sia organizzato il lavoro che altri svolgeranno su quel che si è prodotto. Bisogna, in soldoni, conoscere anche come sia ripartito lo spazio di una pagina di giornale o della doppia pagina e occorre tenere a mente le indicazioni ricevute dal committente. Ciò potrà non bastare e, pertanto, converrà comunque produrre più foto di quante ne siano necessarie, in maniera da fornire varie opzioni possibili. In questo numero di foto si potrà pure tentare di inserire qualche scatto frutto della propria creatività, dovuti alla personale verve artistica, ma è chiaro che le speranze di vederle pubblicate saranno ridotte al lumicino. Ciò non significa che le foto debbano essere una copia esatta di quel che si è visto. L’importante è che non ci siano elementi di disturbo esagerati (colori inesistenti in natura, a esempio, o apparentemente troppo innaturali – incongrui). Non sarà da escludere l’uso di foto con il fuori fuoco che lasci emergere perfettamente solo alcuni particolari. Soprattutto nell’accostamento ad altre in cui emergano nitidamente tutti i particolari, ne guadagnerà l’intera rappresentazione in termini di maggior dinamicità.

Naturalmente dipenderà anche dalla destinazione delle foto. Potrà, dunque, verificarsi anche l’ipotesi che si possa e si debba stravolgere alcuni principi e allora sarà meglio essere in grado di farlo. Anche per questa ragione conviene scattare senza risparmiarsi, magari immaginando più destinazioni per lo stesso evento che si sta documentando. Peraltro, è chiaro che quantunque si voglia limitare la creatività del fotografo, in ogni caso egli farà autonomamente scelte estetiche che non possono che essere personali e irripetibili da altri. Per non dire della composizione sia delle foto incentrate su singole opere che della installazione complessivamente considerata che del’assieme delle foto, legate da medesime impostazioni: le dinamiche compositive sono frutto delle proprie conoscenze, delle esperienze e della sensibilità individuale e, pertanto, anche queste resteranno irripetibili, pure quando sarebbero riconducibili a una stessa matrice, alla medesima scuola di pensiero e così via.

Relativamente ai problemi connessi al colore, di cui si è fatto cenno, è ovvio che nell’ambito di una committenza professionale i criteri posti a base della qualità del prodotto non possono essere derogati. Caratteristiche come la temperatura colore resteranno fondamentali anche qualora si voglia aggiungere la propria creatività. Gli specialisti, infatti, consigliano di impostare la fotocamera digitale su RAW, consegnando la gestione della temperatura colore alla regolazione automatica AWB. L’alternativa, ovviamente, sarebbe nel lavoro in manuale per bilanciare il bianco di volta in volta. Va da sé che in questi casi non ci saranno restrizioni alla possibilità di intervenire in post produzione. Ci sono, invece, in alcuni concorsi fotografici importanti, dove tutt’al più è consentito intervenire solo per lievi saturazioni e per regolare il contrasto. Inutile dire che durante le riprese si dovranno affrontare molti problemi connessi alla presenza di molteplici generi di luci, altri flash e così via. Tutto ciò concorre a creare riflessi e modifiche assurde dei colori. In certi casi non si potrà che tentare di far salvo il salvabile, cercando di non far apparire snaturati alcuni materiali, soprattutto nel contesto che intanto è rilevante in quanto si riesce a restituire il clima complessivo. Si pensi alle fibre del legno, a esempio, e così via. Risulterà molto probabile che per ogni tipo di materiale presente sarà necessario intervenire in post produzione. Rispetto alle opere allestite e da fotografare, invece, sarà assolutamente necessario che la luce sia calibrata, affinché le foto presentino le caratteristiche essenziali per poter essere pubblicate.

Infine, il sopralluogo diligentemente effettuato, deve certamente risultare sufficiente per poter pianificare la sequenza delle foto e probabilmente tornerà utile per preventivare i problemi connessi alla illuminazione dominante. Non è detto che non convenga prendere il coraggio a due mani e cercare di giungere un po’ prima dei tanti ospiti, per scattare con più calma, magari prima che tutte le luci siano sparate verso le malcapitate opere in esposizione. Ove mai il tentativo non vada a buon fine, allora non è detto che il piano luci così come scelto non torni utile per realizzare ottime foto, capaci anche di restituire lo spirito della mostra. Esso è in ogni caso permeato anche degli effetti di illuminazione voluti dalla organizzazione dell’evento.

Alessia Orlando e
Michela Orlando

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