
Vedi Napoli e poi narra (Il gatto Verde Edizioni) è l’ultimo volume firmato da Donatella Trotta, giornalista, scrittrice, formatrice ed autorevole esperta di letteratura d’infanzia. Un percorso ideato e strutturato come uno strumento di snodevole consultazione, attraverso l’incredibile e millenaria storia della città partenopea. Sette itinerari dinamici, con un approccio comunicativo senza generi, che partendo dal rispetto delle tradizioni, si orienta in modo autorevole, ma leggero, per le vie fondati di temi pedagogici, dell’educazione, della legalità e delle trasformazioni, imprimendo un faro importante su tematiche di attualità e invitandoci a ripensare un modello educativo realizzato con e dentro gli spazi cittadini, un opera che regala, omaggia e soprattutto ricorda una delle firme e voci storiche della letteratura e del giornalismo internazionale, come Matilde Serao, cara all’autrice, per il suo legame con la città di Napoli e capace di sottolinearne la potenza e la voce critica.
Quello che risalta nel volume “Vedi Napoli e poi narra”( Il gatto verde Edizioni) è il concetto , sin ad ora poco esplorato, della “bibliodiversità” partenopea. Avendo la città di Napoli, una storia ricchissima di oltre duemila anni, come ha creato il punto di unione tra racconti per ragazzi e adulti e i vari passaggi storici?
La selezione testi, inevitabilmente parziale, dettata da gusti personali e senza pretese di esaustività, è stata guidata fondamentalmente da un criterio base: il racconto di Napoli a misura di bambine e bambini, ragazzi, adolescenti (e i “grandi” che li accompagnano nel cammino della crescita). La scelta dei titoli, pur essendo ovviamente rivolto ad un pubblico prevalentemente adulto (genitori, docenti, educatori, operatori culturali a vario titolo), per offrire uno strumento agile di consultazione sulla grande varietà di narrazioni, generi e linguaggi legata al caleidoscopio napoletano qui declinato in sette “itinerari” simbolici per un viaggio alla (ri)scoperta della città, ha tenuto conto di questo “sguardo” particolare. Estremamente ricco, e variegato, mai univoco. Ed è stata circoscritta in un arco temporale che come inizio ha scelto di partire dalla voce potente di Matilde Serao − a me molto cara, anche perché antesignana della complessità di racconto autentico della città tra giornalismo e letteratura – per poi arrivare, attraverso qualche esempio novecentesco non necessariamente di scritture specificamente dedicate ai ragazzi, agli ultimi decenni di letteratura giovanile (e non solo), dopo il suo boom in Italia negli anni ’80. E il filo rosso che lega allora tutte le narrazioni che ho raccolto, anche con incontri personali con autrici e autori frutto della mia quarantennale frequentazione della BCBF (la Fiera internazionale del libro per ragazzi di Bologna), è in sostanza l’amore. Per la città, per i suoi protagonisti positivi, per i buoni libri che li raccontano in una polifonia che non appiattisce l’immagine di Napoli a riduttivi cliché.
Un volume che può essere definito un piccolo atlante delle emozioni collettive. Elaborando e lavorando alla stesura del libro, quale metro linguistico, ha scelto per orientarsi in maniera più agevole?
Il metro linguistico è stato proprio quello di un approccio comunicativo senza confini tra generi e linguaggi (racconto breve, romanzo, fumetto, albo illustrato…) per rispecchiare le inesauribili suggestioni che Napoli può offrire all’intelligenza emotiva. Un approccio che suggerisce di guardare con rispetto partecipe tanto alle tradizioni partenopee più antiche che ai cambiamenti del presente, proiettati nel futuro. Un metro che sembra essere congeniale ai più giovani. La stessa lingua italiana usata, ad esempio, da molti degli autori e autrici non necessariamente napoletani di origine o residenza, è spesso screziata di espressioni dialettali che tanta parte hanno avuto e hanno nella poesia e nella musica partenopea. Da napoletana di adozione, ho cercato di trasmettere lo stesso costante stupore che Napoli, per me “città balia” secondo la felice espressione di Fabrizia Ramondino, ha suscitato in me da studentessa universitaria e continua a suscitare ancora oggi, dopo quarant’anni di residenza e militanza culturale da “napoletana di cuore”.
La città di Napoli, incarna da sempre il concetto di collettività. Quest’ultima non è fatta solo di parole e linguaggio, ma anche di gesti, sguardi e se vogliamo corporalità. Come ha deciso di inserire i vari aspetti?
Seguendo, come dicevo prima, sette itinerari dinamici, ovvero non rigidi ma sconfinanti spesso gli uni negli altri, per mettere agevolmente a fuoco alcuni temi cruciali in cui la “collettività”, di ieri e di oggi, si è espressa e si esprime anche attraverso gesti, sguardi, corpi, simboli, ritualità. Perciò, si parte inevitabilmente dal sostrato di leggende, miti e tradizioni per poi inquadrare la Storia e le storie che genera.
Un’ampia parte è poi dedicata a temi direttamente o indirettamente pedagogici, che hanno molto a che fare con il concetto di “comunità” (più o meno educante): penso alla sezione “Attualità educ/attiva”, accanto a quella “Ai confini della legalità” e “Formazioni e trasformazioni”. Non manca una sezione su Graphic novel e fumetti e, in un momento di overtourism come l’attuale, una scelta di qualche titolo per lettori più giovani legato a “Itinerari ed esplorazioni” della città e dei suoi dintorni.
Il suo volume è fisiologicamente legato al concetto di narrazione, però è anche rivolto a docenti, genitori ed insegnanti, confermandosi una piccolo ma importante risorsa dal valore pedagogico. Come è riuscita a mantenere il giusto equilibrio?
Narrazione è la parola chiave: noi siamo quello che leggiamo, dice un grande scrittore britannico come Aidan Chambers, didatta della lettura creativa, anzi creat(t)iva. Noi siamo fatti, intrisi di storie. E le storie creano legami. Oggi si fa spesso abuso dell’anglicismo Storytelling, che ha molto a che fare con certe sceneggiature di fiction tv buone per tutti i palati. La narr/azione è un’altra cosa, che a mio avviso ha molto a che fare con la ricerca/azione di Levin: mette in gioco sé stessi, in relazione con il mondo e con gli altri. Genera relazioni. Produce empatia. Lettori non si nasce: si diventa. E la seducente complessità di una pagina scritta, i pluriversi sprigionati dai libri come catalizzatori di emozioni, mediatori silenziosi, ponti relazionali tra generazioni può essere una spinta preziosa per alzare l’asticella della curiosità, dell’approfondimento, del pensiero divergente dall’omologazione, del porsi domande senza attendersi rispostine facili e preconfezionate. Il difficile equilibrio tra tutto questo è la scommessa della (buona) educazione. Che non si accontenta né si fa tentare da scorciatoie e pigrizie intellettuali. Questa piccola proposta bibliografica è un invito ad andare oltre: scoprendo nuovi itinerari possibili nel cammino della consapevolezza identitaria ed educativa. Anche per guardare con occhi nuovi una città plurimillenaria che sfugge da ogni tentativo di etichettarla.
Da giornalista, formatrice, saggista ed esperta di letteratura dell’infanzia, vivendo in un mondo sempre più socialmente e geograficamente frammentato e con pochi riferimenti culturalmente solidi, non si rischia di aumentare il divario tra conoscenza e mondo adolescenziale?
Il successo della miniserie tv di Netflix “Adolescent” la dice lunga su questo divario, che però non appartiene solo all’oggi: il gap generazionale è sempre esistito, e dobbiamo ricordarlo. Oggi però si è esasperata la violenza, l’aggressività legate al senso di solitudine e a un certo nichilismo soft che serpeggia in un’epoca di “passioni tristi” e forte disagio di civiltà, acuito dalla crisi post-pandemica. Pascal Chabot parla di inedita “afuturalgia” che affligge i piàù giovani, ossia il dolore di sentirsi privati del futuro; e François-Xavier Bellamy parla, in un suo libro, de «I diseredati, ovvero l’urgenza di trasmettere» (tradotto in Italia da Itaca Edizioni) e dettato dallo choc provotato in lui, docente di filosofia, da un insensato delitto consumato tra adolescenti, a Parigi, il 12 marzo 2011: un ragazzo uccise un coetaneo, Samy, perché aveva attraversato la linea immaginaria tra due quartieri. Violenza pura, gratuita, assurda. A due passi dal liceo in cui aveva appena iniziato a insegnare il giovane prof Bellamy. Che da allora ha iniziato a riflettere su una rottura inedita accaduta nella società occidentale: una generazione ha rifiutato di trasmettere la propria eredità culturale, ha diseredato i giovani. E dove fallisce l’educazione è inevitabile che sorga di nuovo la barbarie, che trionfi il nichilismo. Come sta accadendo a Napoli, con le paranze di bambini, le sparatorie e accoltellamenti facili tra minorenni. «Vedi Napoli e poi narra» è un invito implicito a ripensare, con e nella città, anche l’educazione. Come scrive Bellamy: «l’emergenza assoluta oggi consiste nel rifondare la trasmissione. Urge riconciliarsi con il significato stesso dell’educazione per far vivere in ognuno la cultura, per mezzo della quale l’uomo diventa umano, la libertà effettiva e un futuro comune possibile».
Sergio Cimmino