Il 25 novembre è la “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne”. Un linguaggio specifico che segna, nella fattispecie, un contesto d’azione specifico nel quale i soggetti coinvolti rivestono ruoli specifici. Tra gli assunti centrali di quello che comunemente viene chiamato “sessismo” emerge, infatti, proprio quello per cui si tratta di constatare che la differenza sessuale agisce come principio di discriminazione tra un sesso dominante e un sesso dominato, caratterizzando in termini di soprusi la dimensione relazionale che – naturalmente – appartiene all’essere umano.

“Nascere donne piuttosto che uomini significa, concretamente, ritrovarsi senza eccezione a vivere nel giogo della sopraffazione e dell’oppressione, individuandosi in una condizione di svantaggio comunemente riconosciuta”: questo è quanto osserva Mary Wollstonecraft nella sua opera di esordio e di rottura, intitolata Rivendicazione dei diritti della donna. Un fenomeno chiaro, radicale, perseverante, messo in evidenza dall’autrice alla fine del Settecento, eppure già riscontrabile nei due millenni precedenti e irrefrenabile per i due secoli successivi – compresi i nostri giorni. Un fenomeno che, ancora, si riversa per estensione nel perimetro della storia occidentale di cui ne costituisce un elemento portante: in qualunque modo lo si voglia definire – “patriarcale”, “androcentrico”, “fallologocratico” – esso è, infatti, un ordine di realtà che ha la caratteristica di presentarsi all’origine della tradizione occidentale in maniera già perfettamente configurata. Ecco perché l’oppressione, la disparità e la violenza di genere non hanno un carattere sporadico o eccezionale. Piuttosto, è strutturale.
Il fondamento peculiare su cui si stabilizza l’assetto simbolico patriarcale ricade su una logica assai singolare che assume il solo sesso maschile come rappresentativo dell’umano in quanto tale. Vale a dire che la differenza sessuale viene concepita come espressione significativa di una diversità che corrisponde ad un preciso grado di inferiorità: per natura l’uomo ha il compito di comandare e la donna di obbedire, così come – sempre per natura – l’uomo riveste i luoghi del sapere e del potere, mentre la donna è relegata alla sfera domestica e ai lavori di cura. Proprio sul termine “natura” sembrerebbe aggrovigliarsi un nodo tanto insidioso da innescare un corto circuito ben radicato. Se da un lato, infatti, sembra che le donne appartengano naturalmente alla sfera domestica (perché partoriscono i figli e li allattano, procreano e accudiscono), dall’altro lato si evidenzia una sovrapposizione definizionale tra naturale e normale – cioè ciò che è conforme alla norma. Così emerge il carattere artificioso e strumentale che questo termine ha assunto per secoli: la natura, cioè, è un concetto che dipende da un processo operato da chi decide le norme. Ecco perché una donna che ragiona e che afferma di possedere la ragione, o una donna che pretende un’educazione adatta e paritaria, appare contro-natura: è, in altri termini, al di fuori di ogni norma socialmente riconosciuta. Ciò su cui, in questo caso, è fondamentale porre l’accento è quel paradigma maschile che è alla base di ogni discorso sulla normalità: cambiano le norme a seconda dei periodi storici ma ordinariamente il sesso maschile conserva il suo potere decisionale, la sua posizione di previlegio. Persiste una volontà esclusivamente maschile che definisce la norma e le sue devianze, il normale e l’anormale, il fedele e il depredato: così, le donne sono assegnate e costrette ad una perenne condizione di dipendenza.
Considerazioni che ci portano, in conclusione, a quel legame tra aggressività maschile e libertà femminile, tra violenza e diseguaglianza tra i sessi, incorporata nella categoria “violenza di genere” e che sembra, anche storicamente, avere un luogo di produzione e irradiazione fondamentale nella famiglia, nei ruoli e nelle funzioni assegnati all’uno e all’altro sesso nella società. C’è un aspetto, infatti, che differenzia profondamente le vittime di genere femminile: più della metà sono state uccise dal partner o dall’ex partner. Ancora, 4 su 5 sono state ammazzate in ambito familiare. Si tratta di atti estremi di violenza di genere, comunemente individuati nella parola “femminicidio” – nato per esigenza di rivendicazione nei paesi dell’America Latina – che è diventato, negli anni, un termine di definizione statistica. Si riferisce, o meglio, a un omicidio legato al genere in cui vittima, assassino e contesto delineano un quadro ben specifico. Secondo i dati rilevati dall’osservatorio sulla violenza di genere dell’ISTAT, nel 2021 l’omicidio di genere è riscontrabile in 45mila casi di donne assassinate nel mondo: mediamente 5 femminicidi ogni ora. Nel 2022, in Italia, su 126 omicidi di donne 106 sono catalogati come femminicidi. Più della metà delle vittime vive la violenza all’interno della coppia attuale, più del 20% la subisce da parte dell’ex partner, circa il 13% è vittima di familiari o parenti.
È fondamentale precisare che la violenza di genere è trasversale, plurale e si mostra attraverso modalità differenti: può essere fisica, psicologica, sessuale, economica. Il 31,5% delle donne in Italia ha subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Circa il 40% delle donne che si sono rivolte ad un centro antiviolenza nel 2022 ha denunciato di aver subito un qualche tipo di violenza economica: dall’impossibilità di utilizzare il proprio reddito, all’estraniazione dalla rendicontazione del denaro disponibile in famiglia, fino alla negazione totale e definitiva dalla gestione delle risorse economiche familiari. Ancora, il 60% delle donne ha dichiarato di non essere autonoma sul piano economico e, pertanto, ricattabile secondo i meccanismi subdoli che sottostanno al giogo della sopraffazione maschile e familiare. Nel 2022 sono state più di 26mila le donne che hanno avviato un percorso di denuncia con l’aiuto dei centri antiviolenza – sebbene per oltre il 40% di loro erano passati almeno 5 anni dai primi episodi di abuso – registrando un aumento significativo di richieste d’aiuto, sia a strutture specializzate sia al numero 1523. Nel 2023 le donne disposte al supporto sono state, complessivamente, più di 16mila, dunque in crescita rispetto all’anno precedente. E, tuttavia, le donne ammazzate dalla cultura machista continuano ad essere troppe: dal 1° settembre 2024 si contano 96 femminicidi su 263 omicidi volontari, 104 se attenzioniamo i casi di lesbicidio e transcidio.
Sono numeri sintomatici di un problema radicato e globalizzato che segnala la necessità di un intervento immediato sviluppato su due livelli: la rabbia e la paura tramutate in agitazione sociale devono, infatti, trovare una risposta risolutiva da parte degli organi istituzionali che, in questo senso, hanno il dovere di tutelare le donne e garantire la maturazione di una cultura privata dei suoi fondamenti discriminanti. La mobilitazione che da anni interessa soggettività disparate – dai movimenti politici, alle associazioni, passando per i centri antiviolenza e i consultori – è indispensabile per tenere viva l’attenzione sul tema e la memoria delle donne uccise dalla violenza di genere, ma evidentemente non basta. Recentemente Gino Cecchettin, padre di Giulia, barbaramente accoltellata dal suo ex partner nel 2023, ha ufficializzato la nascita della “Fondazione Giulia Cecchettin” come una possibilità di tramutare il dolore personale in opportunità collettiva. Dedicarsi, cioè, alla sensibilizzazione costante per non rendere invisibile la violenza di genere e la cultura dello stupro, affinché l’iniziativa di pochi possa fare da motore per il cambiamento sociale destinato a tutti. Ma è evidente che, per quanto assolutamente necessaria, la valorizzazione di nuovi processi culturali promossi dal basso non è sufficiente per scardinare i numeri, le percentuali e le statistiche sconcertanti. È, in altri termini, fondamentale un intervento mirato da parte degli organi istituzionali, finalizzato alla costruzione di una rete di progettazione costante con le molteplici soggettività impegnate nello studio, nella diffusione e nella lotta alla violenza di genere. Da questo punto di vista, ricordiamo la Convenzione di Istanbul del 2011 – che l’Italia ha ratificato nel 2013 – la quale individua un quadro giuridico completo finalizzato a tutelare le donne da ogni forma di sopruso. Diffondere, quindi, il “paradigma della triplice p”: proteggere, prevenire e perseguire verso l’eliminazione della violenza di genere e della violenza domestica, lavorando sull’attuazione di politiche globali e coordinate.
VIOLENZA DI GENERE E CRIMINALITA’ ORGANIZZATA
L’universo simbolico, culturale e ideologico dell’associazioni criminali può essere inteso come la riproduzione esasperata del generico assetto sociale patriarcale. È, infatti, un gruppo di uomini, pensato, disegnato e configurato per uomini, nel quale le donne rivestono una netta minoranza dal punto di vista quantitativo. Per questo stesso motivo, c’è una riproduzione speculare dei pregiudizi, degli stereotipi, degli svantaggi e delle disuguaglianze tra uomini e donne che caratterizzano la società patriarcale.
Di fatto, l’affermazione della mascolinità – amplificata nei suoi tratti più violenti ed egemonici – si ritrova anche e soprattutto nella scelta valoriale di specifici codici, norme implicite ed esplicite che caratterizzano la dinamica di gruppo. Non a caso i ruoli ricoperti dalle donne nelle associazioni criminali sono perlopiù relegati all’essere le madri, le sorelle o le compagne dei membri, spettatrici passive incaricate ai tradizionali obblighi di cura. Mansioni e doveri che delineano quindi la specifica funzione riproduttiva delle donne, che è in altri termini fondamentale per la sopravvivenza intergenerazionale e la conservazione della linea biologica delle “famiglie”. In quest’ottica, un elemento portante, e su cui è necessario porre l’attenzione, ricade sul valore rivestito dal corpo delle donne. Nei gruppi di criminalità organizzata, infatti, persiste la strumentalizzazione della violenza sessuale al fine di creare e mantenere una cultura di genere fondata sulla paura: si stabilisce, cioè, un modello di controllo sul corpo femminile inteso come strategia funzionale a conservare la presa del potere sul territorio. Corpi sfruttati, dissolti, precarizzati. Umiliati e violati, coercitivamente sottratti, disperatamente in guerra: così si reclama la ripetitività della sequenza “uccidi-stupra-controlla”.
In questo senso, gli abusi, le violenze e i femminicidi – come forma estrema di violenza di genere – assumono una portata ancora maggiore perché agiscono come promemoria per chi sfoggia il coraggio di violare le regole imposte. Il corpo femminile è un pilastro portante per la conservazione del potere: ecco perché agire a favore della prevenzione della violenza di genere diventa uno dei mezzi attraverso cui è possibile depotenziare la struttura di comando delle bande criminali. Ed è evidente che, per promuovere un cambiamento reale, è necessario fornire alle donne la possibilità tangibile di vivere lo spazio comunitario in sicurezza, mobilitarsi e organizzare reti di resistenza. La storia di Teresa Buonocore è un esempio lampante di come il tentativo di rivendicazione di fronte alla violenza venga barbaramente soppresso se si è lasciati da soli. Teresa è una donna che non si è piegata di fronte alle sbarre della sua gabbia sociale. È una donna che ha insegnato il coraggio di non piegarsi a nessuna delle gabbie che imprigionano tutte le donne di questo sistema. Teresa era una donna: ammazzata, crivellata e zittita da quattro colpi di pistola mentre era alla guida della sua auto. «Uccisa per vendetta»: così l’ha definita l’uomo, Enrico Perillo, che ha scelto arbitrariamente sulla sua vita. «La sua morte valeva 15mila euro»: questa, invece, la giustificazione dei sicari – Albero Amendola e Giuseppe Avolio – che hanno materialmente premuto quel grilletto, mostrando a tutti l’instabilità della linea che separa un corpo dall’essere condizione esistenziale a mera carne da macello.
La vendetta di Teresa è stata quella di denunciare l’uomo che ha ripetutamente abusato di sua figlia (8 anni), non lasciandosi intimorire dal fetore di morte che Enrico Perillo portava con sé come distintivo di riconoscimento. Teresa ha osato rifiutare pubblicamente quella struttura di potere criminale, sorretta dalla sessualizzazione sistematica dei corpi femminili come mezzo di legittimità per l’ideale della mascolinità violenta. Eppure, nonostante la sua capacità di gridare così forte da riuscire a trovare un briciolo di giustizia, Teresa è stata costretta all’oblio del silenzio per l’assenza di chi avrebbe dovuto rispettare l’obbligo morale, oltre che sociale, di tutelarla. Ricordare la sua storia, e insieme quella di centinaia di donne ammazzate dalla violenza di genere e dalla criminalità organizzata, significa quindi tenere sempre alta l’attenzione pubblica sul fenomeno. Vuol dire continuare a diffondere l’eco di quelle grida di rivendicazione, affinché la rabbia collettiva si tramuti in efficaci proposte di legge, in impegno reale di promozione di politiche sociali e di pratiche culturali che lavorino nella direzione di una ri-educazione affettiva e sessuale. Perché il corpo non è soltanto l’involucro della nostra anima, siamo noi, è il nostro margine e la nostra porta aperta sul mondo. Che si affermi, allora, la libertà di scelta (e la tutela di questa stessa scelta) su quest’infinito spazio in cui si iscrivono le nostre vite!
S.R.