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Lady Macbeth

Anni 80 dell’800 rurale inglese. Katheryne, 17enne malmaritata, cova odio e disperazione, contro marito e suocero. Una relazione clandestina farà precipitare tutto. Come spesso capita, gli scampoli di fine stagione cinematografica, portano delle belle sorprese: il presente film (UK, 16) ne è una. E’ ispirato ad un romanzo breve del russo Nikolaj Leskov del 1865, dal titolo simile, che nel 34 fu trasposto in un’opera lirica dal maestro Shostakovitch: opera condannata da Stalin in persona, che abbandonò la rappresentazione alla sua prima, a metà dello spettacolo. La sceneggiatrice Alice Birch, pur rispettandone la sostanza, ne ha cambiato il finale. Da notare che precedentemente la scrittrice aveva all’attivo un tv movie e un corto, nei quali è stata anche attrice: questa è stata la sua prima opera per il grande schermo. La propose a William Oldroyd, già affermato regista teatrale, che se ne entusiasmò: e da qui si mise in moto la macchina produttiva. Il regista aveva comunque diretto dei Corti di cinema, ispirati alla sua esperienza di teatro, uno dei quali (“Best”, 13) premiato al Sundance Film Festival (la rassegna diretta da R. Redford); ed era stato producer in altra occasione. Ma la sua sensibilità teatrale si vede nella scelta e la gestione dell’attrice protagonista: la giovane, bravissima, Florence Pugh, notata in un thryller parafantastico inglese del 14 (“The Falling”). “Lady Macbeth” è estremamente concentrato e si muove su tre piani, poi convergenti. Da una parte la vicenda dell’infelicità coniugale e personale di Kahy; dall’altra la “gestione” drammaturgica dei maschi presenti nel film, e degli altri personaggi, come ad esempio la cameriera di colore Anna; il terzo livello, gli spazi e il loro uso. C’è la sequenza iniziale del matrimonio, che già fa capire il senso di chiusura totale rispetto alla vita, che era imposto dalla cultura vittoriana della donna. Si vede questa giovinetta che si guarda smarrita e come inebedita intorno; osserva la poca e sparuta gente che la circonda: nessun volto affabile o familiare: tutti arcignamente chiusi nei loro ruoli. Un senso di disperazione la opprime. E senza che sia pronunciata una sola parola. C’è quel velo che la copre: in realtà la maschera, l’annulla e la imprigiona: provoca lo stesso effetto visivo della scultura del Cristo Velato. Tutto ciò prefigura il suo prossimo destino. La nostra solidarietà e simpatia verso di lei è totale e senza riserve. Kath. vive in un continuo stato di sospensione, di minaccia e di attesa: prigioniera nella grande e silenziosa casa, in realtà vive relegata nella camera da letto, nel salotto e nella camera da pranzo. Le è violentemente e chiaramente proibito di uscire all’aria aperta: mentre noi sappiamo che la maggior parte dei grandi personaggi femminili del romanzo vittoriano inglese (delle Bronte, della Gaskell, della Elliot; di Bennett, Moore, del grande Hardy ecc; senza parlare della precedente Austen), avverte quasi con impellenza fisica il desiderio di immergersi nella natura. Inoltre, da quei pochi e frammentari passaggi che la riguardano, noi sappiamo, sia dal dialogo col bambino che dalle sprezzanti parole del suocero, che la ragazza viveva in famiglia e in ambiente rurale. Passaggi che risultano molto ben dosati, dal punto di vista della specificazione “a strati” del personaggio. D’altronde la famiglia che l’ha presa non è più di yeomen, di gente arricchitasi con l’agricoltura: ma di speculatori di miniere; anzi, proprio per questo loro disprezzano l’agricoltura e tutta le culture e tradizioni connesse. Del resto anche Charlotte Bronte, la più longeva e prolifica (però preferisco Emily) delle tre sorelle, aveva scritto “Shirley” (1849), in cui con molta acutezza coglieva gli elementi dissolutori dell’ambiente rurale, ad opera dell’incipiente, ma inarrestabile rivoluzione industriale inglese. Però, voglio dire, tutti questi elementi che caratterizzano l’800 inglese, la sua ricca, complessa e moderna cultura, sono fortemente presenti nella cornice narrativa del film: ne costituiscono l’antefatto storico-ideologico. Che però risulta molto ben incarnato nel “fare” delle dramatis personae, senza che ci sia bisogno di “spieghi” esteriori. Così come ancora, ad esempio, nello stalliere è citato D. H. Lawrence (“L’amante di Lady Chatterlley”). In questa preziosa e ricca tela di “citazioni-non-citate”, ma gestualizzate, K. vive la sua devastante esperienza. Ha la valenza scenica e la potenza tragica di un personaggio shakespeariano: come Jago dell’”Otello” (a. V), non dà motivazioni verbali alla folle distruttività assassina, innescata dalla passione senza freni per Sebastian, poi non più corrisposta; vissuta come una liberazione assoluta dalla schiavitù precedente. E’ come se questa facesse emergere un suo alter ego mostruoso, il suo “mr Hide” (un altro emblematico personaggio vittoriano): la natura sopita e negata dalle convenzioni sociali. Che però ritorna prepotentemente a galla, con adamantina, per quanto cinica e feroce, chiarezza di intenti e volontà ferrea, tali da far impallidire la pochezza e miseria morali e intellettuali di tutti i maschi, Sebastian compreso, da lei incontrati. Si libera dalle catene e richiede spazio e ascolto solo per lei, come la Medea della tragedia euripidea. Perciò, da tutta questa congerie di elementi, anche contraddittori, noi siamo messi in grado di avere, fino all’ultimo, pur in presenza di atti assolutamente esecrabili, nei suoi confronti, una forma di pietà, se non di contorta comprensione. Gli autori sono riusciti in questo miracolo. Su cui convergono con molta efficacia e finezza narrativa, i tre piani di scrittura di cui conversavo all’inizio. E’ un punto d’arrivo tematico, non solo visuale: ed è la forza e la qualità più profonde della sceneggiatura. Cui si accompagna il controllo ferreo della regia, dell’uso degli spazi, dei cromatismi e delle ambientazioni: la foto è di Ari Wegner, in possesso di una vasta esperienza in tv. Le sue tonalità d’interni sono spente e opprimenti; mentre quelle (poche) in esterni sono ventose e sempre climaticamente incerte: tipico dell’immagine delle campagne inglesi dell’epoca vittoriana. Assai importante è il montaggio di Nick Emerson: le sue suture sono talvolta impercettibili; ma rendono con evidenza e silenziosa efficacia drammatica, senza alcuna enfasi, gli stati d’animo di Kathy. E, con sottili, veloci e poco invasivi spostamenti di visuale, i suoi cambiamenti successivi. La struttura della casa si deve alla scenografa Jacqueline Abrahams: l’uso degli spazi, gestito dal montaggio, ha una forte funzione tematica e drammatica. Apparentemente spento, diventa luminoso e alla sua portata, solo quando lei è sola. Molto vigorosa e intensa è l’interpretazione della cameriera di colore (cosa non insolita nell’Inghilterra ottocentesca), l’attrice Naomi Ackie, che nel corso del film diventa afasica e vittima predestinata, incapace di reagire.

 

Francesco Capozzi

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