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La Tenerezza

A Napoli, Lorenzo, uno stanco avvocato della peggiore tradizione napoletana, anziano, vedovo, in rotta con i figli, instaura un rapporto profondo con una giovane sciroccata, se pur vitale, vicina di casa e suo marito. Ma il dramma colpisce la famigliola. Maria Grazia Saccà e Ornella Bernabei, lungimiranti e capaci producer della Pepito Produzioni, rilevarono i diritti del romanzo “La tentazione di essere felici” di Lorenzo Marone, ex avvocato salernitano (ma attivo a Napoli), datosi con successo alla scrittura, pubblicato da Longanesi; proposto al regista Gianni Amelio, “perché probabilmente nelle sue corde”, come lui stesso ha dichiarato, è stato da lui trasformato in film (ITA, 17). Egli, insieme ad Alberto Taraglio, poco prolifico regista, ma alacre sceneggiatore per la tv e da tempo collaboratore della Pepito, l’ha pure sceneggiato. E l’ha trasformato in un’opera estremamente personale e addirittura intima. Ha iniziato con l’uso di una canzone, “Mia Fora Thymamai” di Arleta, tutte e due greche, degli anni 60-70: essa dà il senso di una ballata struggente, dagli echi individuali molto profondi. Amelio spesso “è partito”, per creare le sue atmosfere psicologico-narrative, da una semisconosciuta, ma sempre molto appropriata canzone. Ha composto un casting da lui personalmente curato. Il protagonista è il navigato, colto e maturo attore Renato Carpentieri: napoletano, ha già lavorato felicemente con Amelio; proveniente dal teatro, ha conosciuto proprio con lui il successo cinematografico. Accanto a lui c’è Elio Germano, nel ruolo del marito della vicina e padre dei due bambini: la sua sofferenza esistenziale è resa con un’incalzante climax che si manifesta attraverso gesti di drammaticità furiosamente compressa. Il cui culmine è il ritrovamento fortuito di quell’amato giocattolo della sua infanzia: invece di dargli pace, lo porta da un confronto distruttivo e ultimo con se stesso. Le coprotagoniste femminili sono Vittoria Mezzogiorno, la figlia compassionevole, e Micaela Ramazzotti, tenera e svanita, ma attenta e fine. Anche molto azzeccata e intelligente è stata la scelta di Maria Nazionale: cantante di grande spessore musicale, si è già rivelata attrice di sicuro piglio. La sua parte di ex amante, lasciata senza un perché dal già fedifrago Lorenzo, è un mix di forza popolare e romanticismo; dignità e consapevolezza femminile molto energica. L’averla scelta rivela un senso della direzione attoriale che è un po’ una delle caratteristiche più positive di Amelio. Come anche molto significativa è la scelta del giovane Artuto Muselli nell’ambiguo, ma sofferto ruolo del figlio all’apparenza tanto distaccato e disinvolto da essere un “rubacchiotto”, sempre intento a frugare nella casa del padre, per portare via soldi e oggetti che possano essergli utili, tracce e prede di un amore di cui avverte la mancanza; e che chiede soldi, come segno di affetto e solidarietà all’amorevole sorella. In lui comunque albergano una rabbia e un dolore repressi che ogni tanto si manifestano, come taglienti lame di luce abbagliante. Questa difficile ambiguità è sottilmente tenuta in bilico, chiaramente su sollecitazione del regista, dall’attore, ormai di una professionalità e sicurezza di livello sofisticato. Ma allora da dove scaturisce la tenerezza del titolo, in quest’universo narrativo di infelicità e abbandoni? C’è una bella citazione di in poeta arabo, resa nel sottofinale dalla Mezzogiorno, che però non è del libro, ma degli sceneggiatori, che più o meno suona così: “la felicità non è un posto dove andare, ma è un porsi che è da ricercare nel nostro passato, nella nostra memoria, dentro di noi”. Credo che sia una chiave del film. Questo scarrupato anziano avvocato ricorda il Giorgio Albertazzi, in cerca di redenzione di “L’avvocato De Gregorio” di Pasquale Squitieri (03), sottovalutato regista da poco scomparso. Il nostro Lorenzo si aggira, si nasconde e si vuole come perdere tra le strade del centro storico di Napoli, sempre brulicanti di vita e di rumori; che sembrano ottundere, nella loro forsennata vitalità irriconducibile alle convenzioni del vivere civile e ordinato, la profonda infelicità del suo vivere. Il suo è un trascinarsi tra contraddizioni irrisolte: ma la speranza che aveva posto nella salvezza della sua vicina, stando affettuosamente al suo capezzale pur non avendone alcun titolo, vorrebbe essere come un riscatto rispetto all’insolvenza dei suoi apporti affettivi. L’unica a capirlo con assoluta chiarezza è la figlia. E il loro gesto semplice di avvicinamento del finale apre la strada a quella tenerezza, “incorniciata” splendidamente dalle note musicali toccanti della canzone greca; che è l’unica dimensione in cui cercare il perdono reciproco, che vuole essere una speranza di vita e di affetti condivisi. La semplicità e la sincerità di questo percorso s’impongono alla nostra attenzione e partecipazione emotiva; e fanno da tara anche ad alcuni compiacimenti verbali che rallentano, anche se aiutano a chiarire alcuni passaggi del film. Che resta un’opera riuscita. Aiutano non poco gli apporti tecnico-artistici, oltre alle qualità attoriali descritte: quello del bravissimo Luca Bigazzi, nella direzione della foto, è il più significativo. Egli ha “spento” le cromaticità delle folle in moto: ma le ha rese, per paradosso, ancora più lussureggianti di vita e di colore, perché le ha sottolineate, e ci vengono comunicate, in un sguardo sempre collettivo e complessivo attento, mosso e pieno di vita. Perfettamente in linea, come in una asimmetrica sinfonia, coll’accorto e puntuale montaggio della “veterana” Simona Paggi: insieme hanno creato davvero una città che “è mille colori” (P.Daniele). La scelta del palazzo signorile ai Banchi Nuovi, nella su erta difficoltà di accesso, ha un forte ed evidente valore metaforico: oltre che in casa, il lavoro dello scenografo Giancarlo Basili (insieme a quello del costumista, il famoso Maurizio Millenotti), danno gli adeguati corpi e profondità alle estensioni materiali tra cui si inerpicano e confliggono, in interni ed esterni, i vissuti dei protagonisti. 

Francesco Capozzi

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