Paolo Sorrentino è il tesoriere di un’enorme ricchezza che nasce dalla malinconia negli sguardi dei suoi personaggi e dalle loro bocche colme di rassegnata speranza. Verità. Una verità che, certo, non è sempre facile cogliere, che gioca a nascondino e a cui piace starsene tra le ombre. Una verità che non si traduce in una rappresentazione positiva o negativa della realtà, dove il bicchiere non è mezzo pieno o mezzo vuoto ma semplicemente a metà. Certo, la chiaroveggenza del regista non ci è offerta gratuitamente e inoltre Sorrentino, stavolta, aveva tutto il diritto di prendersi una piccola e personale vendetta nei riguardi di quel grosso sciame di incoerenti intellettualoidi che dopo aver criticato La grande bellezza per mesi hanno cominciato a divinizzare l’orgoglio italiano agli Oscar. Da qui parte il suo gioco fatto di contraddizioni e paradossi, sentenze che costruiscono castelli di carta, empatie, certezze crollate e poi ristabilite. A dirla tutta il suo è un dono non indifferente: riesce infatti a muovere quei giusti tasti che avviano riflessioni che possono durare per settimane.
L’apertura del film è stata fenomenale: ascoltare You’ve got the love è quasi come portare nel concreto il proverbio “Il buongiorno si vede dal mattino”. Un po’ di contrasto tra il celebre singolo dei Florence and the Machine e la Raffaella Carrà dei bei tempi andati che metaforicamente resuscita in un remix all’inizio de La grande bellezza. Non starò ore e ore a parlarvi della trama e non per mancanza di zelo o perché esiste Wikipedia, semplicemente perché riportare la sinossi sarebbe una mortificazione del lungometraggio stesso e vi toglierei inoltre il gusto di lasciare che la storia si srotoli davanti a voi pian piano. In ogni caso concentrarsi sugli eventi è ancora una volta difficile ma soprattutto inutile. Il punto focale del film, infatti, non è costituito dalla successione di avvenimenti di particolare scalpore quanto dalla complessità dei personaggi e dai loro moti dell’animo. Sensazioni, sguardi e sentimenti nascosti rifugiati in un lussuoso albergo sulle Alpi. Il protagonista, Fred Ballinger, è interpretato magistralmente da un malinconico Michael Caine, un direttore d’orchestra che ha deciso di non dirigere più, rifiutando addirittura l’invito della regina d’Inghilterra. Al suo fianco Harvey Keitel, Mick, si impegna nella scrittura del suo film-testamento e Paul Dano, Jimmy, è un attore che vorrebbe fuggire dal suo passato di robot in un film commerciale. Attorno a questi tre personaggi principali ruotano diverse figure secondarie, come la figlia di Mick, Maradona (ammettiamolo tutti che l’attore è identico), un alpinista barbuto o una coppia che non si parla più (ma trova altri modi per comunicare) che comunque risultano in qualche modo indispensabili e regalano moltissimi spunti di riflessione.
Inutile precisare, quindi, che sono ancora una volta le personalità presentate sulla scena a tenere le redini con la loro umanità, la loro sofferenza, le loro insicurezze. L’intero film è pervaso da questa malinconia a tratti sottile, a tratti molto più esplicita, profondamente legata ai ricordi e inevitabilmente alla giovinezza. È stupenda la scena in cui Mick mostra come vediamo il passato e il futuro con il solo uso di un cannocchiale. La giovinezza si ritrova nei racconti di vecchi film prodotti, nel piede sinistro di Maradona, nell’isolata e meravigliosa sequenza di Fred che “dirige” un gruppo di mucche con i loro sonagli, gustando per un attimo il passato. Il titolo non deve però ingannare: i temi trattati nel film sono i più disparati e i più vicini a noi. Il rapporto tra padre e figlio, una forte amicizia fatta solo apparentemente di bei racconti ma sicuramente più profonda nella realtà, rimpianti e decisioni che vengono finalmente prese.
Non manca l’edonismo di Sorrentino nel portare sulla scena ambientazioni di un certo gusto estetico, una fotografia eccelsa (ancora Luca Bigazzi) e il ritorno di David Lang per le bellissime musiche. Anche se a Cannes i francesi ci hanno battuti su tutti i fronti rimaniamo contenti di questa nuova produzione, ricordandoci sempre che “le emozioni sono tutto quello che abbiamo”.
Anna Scassillo