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La provocazione postuma del Pasolini di Ferrara

Prima di cominciare: felice di fare la vostra conoscenza. Sono Lucia e il compito mio e della mia compagna d’avventura (Anna, che conoscerete prossimamente) è quello di soddisfare le curiosità di voi lettori cinefili. Quindi, buongiorno (e casomai non vi rivedessi, buon pomeriggio, buonasera e buonanotte). La nostra parola d’ordine è Fidelio, qui beviamo solo latte e mangiamo polipi vivi. No, non sono impazzita, sono solo dei riferimenti cinematografici che avrete sicuramente colto. Se non lo avete fatto, allora dovreste cominciare a leggerci, avete bisogno di noi.

V’ho visto, non sbuffate dietro lo schermo! Non osate cambiare pagina e sostituire questo articolo con una di quelle classifiche come ‘I 20 segnali che sei nella friendzone’. Non preferireste arricchire il vostro bagaglio culturale parlando con me della settima arte? Voglio convincervi del valore del cinema. Potreste trovarlo non solo interessante, ma perfino utile. Ad esempio, è un buon modo per ostentare superiorità intellettuale: al primo appuntamento con la persona che vi piace potrete vantarvi di conoscere ogni aspetto della nouvelle vague e magari fingere una certa profondità asserendo che i cinepanettoni non sono altro che opere d’arte moderna che vogliono mettere in evidenza, parodisticamente, la crisi del pensiero contemporaneo. Ovviamente questo non è affatto vero, non vi consiglio di farlo, a meno che il vostro aspirante partner non abbia un quoziente intellettivo inferiore a quello di Forrest Gump. Comunque, il cinema offre anche possibilità di lavoro: attori, registi, sceneggiatori, assistenti, costumisti, truccatori, direttori della fotografia e tanto altro ancora. Non vi ho ancora convinti? Allora gioco l’ultima carta: il cinema è comunicazione e tutti, nessuno escluso, abbiamo la necessità di esprimerci e confrontarci, se non addirittura scontrarci. La pellicola dà la possibilità di farlo come meglio si crede, spesso e volentieri tramite la provocazione, e chi è stato l’istigatore per eccellenza? Pier Paolo Pasolini. Oggi, per convincervi dell’importanza di quest’arte, voglio parlarvi dell’ultimo lavoro di Abel Ferrara, dedicato ai giorni che hanno preceduto la morte dell’eclettico artista italiano.

Presentato alla 71esima edizione della biennale di Venezia, il film è stato girato sia in italiano che in inglese. Il cast è infatti quasi completamente nostrano, a eccezione dell’interprete di Laura Betti e del ben noto attore protagonista, Willem Defoe, che in sala ha la voce di Fabrizio Gifuni. Il regista statunitense è notoriamente molto legato al bel paese, genealogicamente e artisticamente, e la scelta di concepire il film nella lingua madre di Pasolini è – per sua stessa ammissione – un chiaro omaggio all’Italia. Il lavoro di Ferrara è concentrato in soli ottantasei minuti di proiezione, in cui il pensiero pasoliniano trova spazio non solo filtrato dalla telecamera di Abel Ferrara, ma anche riportato nella sua integralità. Fa infatti da introduzione una scena di Salò o le 120 giornate di Sodoma.

Entrando nel vivo della pellicola: comunicazione. Questo è l’aspetto che più mi preme trattare riguardo la figura di Pasolini, egregiamente interpretato da un attore che non ha bisogno di presentazioni. Lo scrittore (come indicato sul suo passaporto, anche se ridurlo a questa definizione è limitativo) è tormentato dal bisogno di esprimere la sua insoddisfazione, difatti in una delle sue ultime lettere – il cui contenuto è scandito dal voice-over del troppo occasionalmente doppiatore Gifuni – esprime il dubbio di non essere riuscito a rendere pienamente comprensibile il suo pensiero e la necessità, dunque, che le sue idee giungano chiare e integrali. La sua, come precisato nella sua ultima intervista, è una lotta contro i poteri e le ideologie convenzionali. “Non ci sono più esseri umani”, dice, inveendo contro le classi che ci formano senza differenze: la scuola pubblica, la televisione e i giornali che alienano il pensiero e fanno sì che si diffonda il desiderio del possesso e della distruzione. Eppure, chiede il giornalista, cosa rimane dopo la battaglia? Se tutto ciò contro cui agiamo sparisse, cosa resterebbe, che senso avrebbe l’espressione? La risposta di Pasolini suona utopica: rimarrebbe un uomo che finalizza la propria esistenza alla creazione, alla voglia di vivere. Eppure, anche battendosi per la realizzazione di quest’idilliaco progetto, non si allontanano i rischi. Siamo tutti inevitabilmente in pericolo, specialmente se si fa riferimento a un periodo storico – come quello in cui visse Pasolini – dominato dall’intolleranza.

Non è difficile immaginare quanto possa essere complicato per un omosessuale dichiarato, in continua lotta con la censura nel tentativo di sdoganare le pulsioni sessuali che integralmente riportava nei suoi lavori, convivere con un costante clima di condanna. Proprio a causa (a causa e non per colpa) della sua volontà di autoaffermazione e determinazione che Pasolini incontrò la morte, dopo essere stato vittima di un attacco palesemente omofobo da parte di un gruppo di ragazzi che lo aggredì e derubò, lasciandolo indignitosamente sfigurato su una spiaggia romana. È noto che a riconoscerlo fu l’amico e pupillo artistico Ninetto Davoli, comunque presente nel ruolo di Epifanio ma qui interpretato da Riccardo Scamarcio. Piccola parentesi: liberatevi dell’idea che Scamarcio sia quello di ‘Tre metri sopra al cielo’, perché con il giusto regista riesce a dimostrare di essere un ottimo interprete (da vedere assolutamente in Mine vaganti di Ozpetek). È infatti convincente il lavoro fatto dall’attore sotto la direzione di Abel Ferrara.

La peculiarità più evidente di quest’ultima è la morbosa attenzione dedicata alle mani dei personaggi, in particolar modo a quelle di Defoe, che ne fa un mezzo di massima espressività. La gestualità di quest’ultimo accompagna ogni impulso emotivo del personaggio, dai movimenti frenetici della battitura su macchina da scrivere, su cui bulimico riversa le proprie idee, alla quasi totale staticità delle pause riflessive. Complice anche l’avvolgente fotografia, in cui sono predominanti i colori caldi e le fitte ombre, l’intimità con cui vengono raccontati i giorni conclusivi della vita di Pasolini diventa palese e coinvolgente. A questo si aggiunge la colonna sonora, che specialmente nelle scene finali (la morte e l’annuncio del decesso alla madre dell’artista), accompagnate dall’aria Una voce poco fa tratta da Il barbiere di Siviglia, ben riflette la forte carica emotiva presente. Alla ricostruzione delle ultime ore di vita si alternano inoltre scene tratte da Porno-Teo-Kolossal, sceneggiatura incompiuta a causa della prematura e imprevista dipartita. È a Eduardo De Filippo che questa venne mandata, con una lettera in cui Pasolini espresse la volontà di affidare a lui il ruolo principale di Epifanio (“Epifanio lo affido completamente a te: aprioristicamente, per partito preso, per scelta. Epifanio sei tu”). Anche nella ricostruzione di Ferrara questo passo della missiva viene citato dalla voce fuoricampo di Gifuni, come nel caso precedentemente citato.

Le scene del lavoro incompiuto sono quindi non un remake del regista Ferrara, bensì la realizzazione del lavoro di Pasolini, così come avrebbe voluto che fosse girato. La scena che più è stata soggetta a polemiche da parte dei critici, che hanno avuto l’occasione di vedere la pellicola in anteprima a Venezia, è stata quella della cosiddetta ‘Festa della fertilità’, che altro non è che un’orgia finalizzata al concepimento, in cui si contrappongono uomini e donne di norma omosessuali, che però approfittano della celebrazione per perpetuare il mantenimento della specie, in un clima di reciproca ingiuria. Definita come ‘inutilmente voyeuristica’, in realtà il momento è volutamente contemplativo, essendo seguito dal punto di vista di Epifanio e del servitore Nunzio, spettatori del rito.

È struggente la sequenza dedicata all’aggressione subita da Pasolini, ma è davvero questa la sua fine? Non secondo lo stesso, che proprio nell’opera incompiuta, spedita nei suoi ultimi giorni di vita, ricorda che la ricerca della pace è inutile: il paradiso non esiste, né è pensabile un vero e proprio epilogo dell’esistenza. È nichilista la visione dell’interminabile vuoto vitale, colmabile solo dall’attesa e dalla speranza che qualcosa possa accadere, per scuotere l’uomo dal nulla che è costretto a sopportare una volta liberato da illusioni e false speranze. Il film si avvicina in realtà più a un omaggio che a una ricostruzione, in cui non vengono rigidamente riportati solo i suoi ultimi giorni in quanto tali, ma soprattutto la forza delle sue idee e il clamore che queste sono riuscite a provocare. Pasolini è per questo l’esempio del provocatore per antonomasia, che si serve dell’arte per operare attivamente sul pensiero del pubblico, per abbattere la cultura del pudore che ancora ha risonanza nella nostra contemporaneità.

Chi meglio di colui che ha diretto la nota Trilogia del peccato poteva farsi portavoce di questo pensiero? Lo sguardo di Abel Ferrara risulta essere il migliore auspicabile, grazie al quale ci viene consegnata una visione scevra da ogni colpevolizzazione, in cui emerge solo il sacrificio di un uomo che ha dedicato la propria vita all’evoluzione ideologica e il pericolo che una diffusa cultura integralista può comportare. Pasolini rivive sullo schermo con il volto di Defoe e lo fa nel migliore dei modi. Unico difetto: la sala quasi completamente vuota, ma siete ancora in tempo per riempirla.

Lucia Liberti

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