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Sinfonie eterne, Ludwig Van Beethoven

Si tratta probabilmente del più grande compositore di ogni tempo e luogo, un titano del pensiero musicale, i cui traguardi artistici si sono rivelati di portata incalcolabile. E forse, in alcuni momenti della sua opera, anche il termine “musica” appare riduttivo, là dove lo sforzo di trasfigurazione compiuto dal genio appare trascendere l’umano sentire.

Nato a Bonn (Germania) il 16 dicembre 1770 Beethoven crebbe in un ambiente culturale e familiare tutt’altro che propizio. Il padre è tacciato dagli storici di esser stato un maldestro cantante ubriacone, capace solo di sperperare i pochi guadagni in grado di racimolare, e di spremere fino all’ossessione le capacità musicali di Ludwig, nella speranza di ricavarne un altro Mozart: espedienti di basso sfruttamento commerciale fortunatamente poco riusciti.

La madre, donna umile ma giudiziosa e onesta, appare segnata da una salute men che cagionevole. Ebbe sette figli, quattro dei quali morti prematuramente.

Il temperamentoso Ludwig si trova dunque ben presto gettato nell’arena della sopravvivenza, forte solo del suo precoce talento.

A nove anni inizia studi più regolari con Christian Neefe, organista di Corte, a quattordici è già organista della Cappella del principe elettore (l’anno prima perde la madre, evento che lo traumatizza) e poco dopo, polistrumentista come il fratello in musica Amadeus, suona nell’orchestra del teatro.

Nel 1792 lascia Bonn per recarsi nella più vivace Vienna, la città che più lo avrebbe apprezzato e in cui poi si sarebbe fermato per il resto della vita. Le sue capacità improvvisative, basate su aggressioni premeditate al finora esile pianoforte alternate a inaudite dolcezze, scioccano l’uditorio.

Le sue opere, dapprima influenzate dai classici di sempre (Haydn, Mozart) ma già marchiate da soverchia personalità, poi sempre più audaci e innovative, scuotono il pigro andazzo della vita artistica, seminano il panico estetico, gettano chi ha orecchie e cuore per intendere, nei terribili abissi della coscienza.

Mentre viene idolatrato, in primis dai nobili del tempo che fanno a gara per assicurargli vitalizi e vedersi omaggiati nei frontespizi delle opere, anche se scrive musica secondo le sue esigenze espressive e non secondo commissioni (primo artista della Storia), con lui una crepa, uno scollamento tra traguardo artistico e pubblico diverrà sempre più incolmabile.

Le ultime opere, scritte già in completa sordità stanno a testimoniarlo, esoterici incunaboli per i compositori a venire.

Il tarlo auditivo lo colpisce già in giovane età, causando crisi al limitare del suicidio e intensificando il suo orgoglioso distacco dal mondo, frutto non di banale disprezzo ma dell’umiliazione di non poter godere in modo semplice della compagnia altrui. Solo le passeggiate in campagna gli danno un po’ di pace ma col tempo, per comunicare con lui, gli amici dovranno rivolgergli le domande per iscritto, edificando per i posteri i celebri “quaderni di conversazione”.

Anche l’amore, cercato fra le blasonate di sangue blu (frequentatrici il suo ambiente abituale), non gli fu propizio: forse per insipienza da parte delle amate, immobili come gazzelle ipnotizzate davanti a quel leone indomabile, o forse per insuperabili pregiudizi sociali, la nobile non potendosi accoppiare col borghese, con l’umile servitore delle sette note.

Ansioso di calore familiare, non trovò di meglio che estorcerlo forzosamente al nipote Karl, orfano di padre, poi indotto addirittura al fortunatamente mancato suicidio dalle soffocanti attenzioni dello zio, in disdicevole competizione con la madre naturale.

Il 7 maggio 1824, a Vienna, Beethoven appare in pubblico per l’ultima volta, per l’audizione della sua celebre “Nona Sinfonia”. Il pubblico prorompe in applausi fragorosi. Seduto accanto al direttore d’orchestra, le spalle rivolte al pubblico, il compositore sfoglia la partitura, materialmente inibito a sentire ciò che lui stesso ha partorito. Devono costringerlo a voltarsi perché possa constatare l’immenso successo riportato dalla sua opera.

Il 26 marzo 1827 cede ai mali che lo tormentano da tempo (gotta, reumatismi, cirrosi epatica), alza il pugno al cielo, come vuole una famosa immagine romantica, e muore di idropisia. Il suo funerale è fra i più colossali mai organizzati, l’intera città è attonita.

In un angolo, fra le orazioni funebri di Grillparzer e di eminenti esponenti della politica e della cultura, una figura anonima e meditabonda, avendo eletto il genio di Bonn a suo nume tutelare, osserva la scena: è Franz Schubert. Raggiungerà il nume l’anno dopo, a soli 31 anni, pretendendo di esservi sepolto accanto.

Fonte: www.biografieonline.it

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