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“Sister”

Simon, 12 anni, si fa carico, con furti in una ricca stazione sciistica vicino casa, dell’esistenza sregolata della “sorella” Louise. Il film (FRA-SVIZZ ,11) è diretto e scritto dalla francese Ursula Meier, al suo secondo lungometraggio. Ha vinto un importante riconoscimento alla berlinale di quest’anno. Il vero protagonista è la profonda, complessa e contraddittoria relazione tra i due. Una relazione immersa in un’ansia affettiva primordiale: Simon per la sua “Sister” farebbe letteralmente tutto; non solo rubacchia, ma la protegge dalle ingiurie del mondo alle quali lei si lascia andare con passiva facilità; e ciò non genera in lui rabbia, ma ancora più intenso amore e voglia di protezione.  Per quanto si veda poi che c’è ben altro, la psicologia del bambino è un capolavoro di furberia, ingenuità, fragilità; anche di “antipatia”: nel senso che non vuole il riconoscimento di nessuno tranne che della sorella. Tratta gli altri come se fosse un adulto che “compra” la simpatia altrui, perché “tutto ha un prezzo”, anche l’affetto: ma è solo una disperante difesa di sé. La scansione geografica non potrebbe essere più metaforica: a partire dal titolo originale (“L’enfant d’en haut”), è molto enfatizzata la differenza esisetnzial-classista tra il “basso”, la dimensione dei poveracci e l’”alto”, la montagna dei ricchi. Quel condominio-vivaio, dove vivono i due, con la vista  dell’alto, è una struttura in mezzo al nulla, scheletrica e illuminata con fredda e asettica chiarezza, simbolo esistenziale  del loro isolamento. In questo senso il lavoro della direttrice della fotografia, Agnés Godard, è di gran pregio, nel differenziare le due atmosfere di “sopra”, dove niente ha rilievo, e del “sotto”, dove perfino il disordine è differenziato.

Ciccio Capozzi

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