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La tradizione napoletana del torrone dei morti ha origini antichissime

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Ce ne parla Alessandra Pelagalli,autrice del libro “Le fave dei morti”.

Alessandra Pelagalli ricercatrice in fisiologia veterinaria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II  ed è appassionata di cucina . 

Più volte mi sono chiesta perché in casa mia arrivassero tutti quei torroni di diversi gusti e colori nel periodo prossimo alla Commemorazione dei Defunti.
Facendo una ricerca sull’argomento le notizie raccolte sono numerosissime e raccontano riti e tradizioni di antica memoria.
L’uomo in effetti ha sempre cercato di esorcizzare il timore della morte o il dolore per le persone care ormai perdute attraverso celebrazioni più o meno complesse. Andando indietro nel tempo, sia nei riti greci che romani e bizantini, il culto dei morti è molto sentito e celebrato secondo un calendario annuale ben preciso.
A Napoli poi il rapporto con i defunti è particolarmente “vivo”, tanto che nella settimana di Ognissanti e della Commemorazione dei defunti, ricadenti rispettivamente l’1 e il 2 novembre, la città è totalmente bloccata dal traffico dovuto al grande numero di persone che si reca presso i cimiteri. Mi viene da pensare alla famosa pratica delle “anime pezzentelle”, in uso per circa tre secoli negli ipogei di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco. Chiesa barocca costruita tra la fine del seicento e i primi del settecento il cui ipogeo era destinato alla sepoltura delle persone povere o senza famiglia, le anime pezzentelle ( dal latino pètere, chiedere).
Da allora si sviluppa l’usanza sentitissima di adottare uno dei tanti teschi qui custoditi e di prendersene cura nella speranza di ricevere favori. Per fortuna questo rito così macabro fu proibito nel 1969 dal cardinale Ursi, ma la fama delle anime pezzentelle è tutt’oggi fortissima e richiama molti visitatori.
I napoletani in passato usavano lasciare sul tavolo da pranzo, in questo periodo, del cibo per le anime dei propri cari che si riteneva tornassero a trovarli durante la commemorazione dei defunti. Tutto ciò ha radici remote e, nella ricostruzione della storia, l’offerta di cibo ai morti è frequente così come il simbolismo della fava che assume significati diversi a seconda delle etnie e del periodo storico.
Si narra che Demetra escluse le fave dai legumi portati in dono ai Fenati quando entrò nella loro città e che ne proibì severamente la presenza e l’uso durante i suoi riti ritenendole impure. I pitagorici credevano che la pianta della fava servisse come mezzo di comunicazione tra il mondo dei vivi e dei morti in quanto dotata di radici profonde e di stelo cavo privo di nodi. Li ripugnava l’idea di mangiarle per il fatto che alcune leggende del tempo narrassero che mettendo una fava nel letame dopo circa quaranta giorni si trasformasse nella testa di un bambino, oppure che, immergendola nell’acqua, colorasse questa di rosso facendo loro pensare al sangue.
Fatto sta che i greci la proibirono nei riti oracolari perché rendeva impura la mente ed il corpo. In effetti i culti greci avevano sostituito culti arcaici precedenti nei quali le fave venivano utilizzate secondo un sorteggio per interrogare gli oracoli. Rifiutando l’idea del sorteggio ritenuta primitiva e sacrilega, si erano inventati una serie di storielle per allontanare l’uso delle fave e celare la memoria dei culti arcaici.
Nella civiltà romana invece la fava assume simbologia positiva, è segno di abbondanza e fertilità, molto probabilmente per il fatto che rappresentasse il cibo della terra con maggiori proprietà nutrizionali prima dell’incremento dell’agricoltura cerialicola. Comunque non aveva perso il suo legame con il regno dei morti e risultava infatti frequente la simbologia delle fave nel calendario delle festività romane in diverse celebrazioni sia funebri che propiziatorie. Il 1° giugno ricadeva la festività delle Kalendae fabariae ( le calende delle fave) in onore della dea Carna, colei che Giano aveva posseduto con l’inganno, secondo il racconto di Ovidio. Per rimediare all’offesa, costui le fece dono di un ramo bianco di spino che le concedeva la facoltà di allontanare i mali dalla soglia di casa.
Carna diventò anche dea protettrice di cuore, fegato e viscere ed a lei veniva donata una mistura di fave (plus fabata) il 1° giugno per mantenere lontane le malattie da questi organi. Ancora oggi nel centro Italia, specie nel Lazio ed in Abruzzo, nello stesso periodo dell’anno si usa mangiare pecorino e fave. L’attuale Commemorazione dei Defunti, che secondo il calendario cristiano ricade il 2 novembre, è stata istituita dal monaco cluniacense Odilone di Cluny nel 998 che, come spesso accade, sostituiva la festività celtica Samahim dedicata ai defunti, in Irlanda Fleadh nan Mairbh (feste dei morti) – il giorno che non esisteva, dove, anche in questo caso, i morti ritornavano nei loro luoghi terreni.
Odilone istituì che durante la sera della vigilia del 2 novembre le fave divenissero cibo di precetto nei monasteri durante la preghiera e che, cotte insieme ai ceci, fossero messe a disposizione dei poveri per le strade. Ecco perché ancora oggi in molte regioni d’Italia nel periodo di Ognissanti e dei morti si mangiano zuppe di cereali e fave. Sappiamo quanto sia diffuso e pericoloso il favismo, motivo per il quale in alcui territori la zuppa con le fave è stata sostituita con dolcetti a forma di fava, tra l’altro anche più buoni, a base di mandorle e miele. Le mandorle a loro volta sono sempre state molto presenti nei cibi riconducibili al culto dei morti, forse perché ricordano le ossa: a Milano e Brescia c’è il “pan dei morti”, “ossa da morto” in Piemonte e Lombardia, “cavalli” in Trentino Alto Adige dal culto greco della dea Epona protettrice dei cavalli (epos) che accompagnava le anime nell’aldilà, torrone dei morti in Campania.
Eccoli qui “’e murticiell”, oggi preparati principalmente con cioccolato sia scuro che bianco, o con marzapane, mandorle, nocciole, canditi, castagne, in più interpretazione di gusti che rendono invitanti e variopinte le vetrine delle pasticcerie. A Napoli questa tradizione è particolarmente sentita e, in tale ricorrenza, si usa moltissimo comprare il torrone morbido. A Castellammare di Stabia questa usanza assume altri aspetti come quello di personalizzare il torrone scrivendoci sopra con lo glassa di zucchero il nome della fidanzata e di portalo in dono augurandole prosperità e lunga vita.

Tutto questo sabato 31 ottobre alle ore 11, 30 sarà raccontato insieme al famoso pasticciere Sabatino Sirica a Magna, la Mostra Agroalimentare Napoletana nel chiostro del Convento di San Domenico Maggiore. Sabatino dimostrerà come si prepara il torrone dei morti e lo offrirà in degustazione agli ospiti.

Tra le fonti delle notizie raccolte c’è il libro Le Fave dei morti di Alessandra Pelagalli.

Buon ascolto!

Acino Ebbro 2 Novembre 2015

 

 

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