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Il culto del caffè a Napoli tra caffè house, cocumella e espresso napoletano. Dove bere oggi un buon caffè.

Sappiamo quanto sia radicato il culto del caffè a Napoli, ma pochi sono al corrente di come sia arrivato in città ed del percorso intrapreso fino a diventare protagonista della cultura partenopea e dello stile di vita di ogni singolo cittadino. Il termine comune “espresso napoletano”, utilizzato in tutta Italia per definire una precisa tipologia, la dice lunga su quanto questo abbia fatto tendenza.

Eduardo, con la sua innata abilità ad esprimersi facendo poesia di ogni parola scelta e accompagnata della mimica facciale, retaggio di una intensa attività teatrale, rappresentò magnificamente il valore del caffè nelle case dei napoletani con la celebre scena in balcone nel dialogo immaginato con il professor Sant’Anna della commedia “Questi fantasmi”. Ma come arriva il caffè a Napoli? Certo non siamo mai stati produttori dei suoi chicchi, ma siamo stati abilinell’ esaltare al meglio questa bevanda arrivata da lontano, esattamente come è accaduto per i pomodori di origine americana o con la pasta arrivata da qualche paese del grano nel bacino del Mediterraneo. Partendo dall’etimologia della parola, se ne traccia anche il percorso geografico: caffè deriva dall’arabo qahwa (eccitante), poi divenuto kahve in Turchia, terra dalla quale è approdato in Europa. La pianta è originaria dell’Etiopia dalla quale si è diffusa poi in Arabia e Turchia. Fu la bellissima Vienna ad apprezzare per prima in Europa la bevanda scura ed eccitante, tanto da dedicarle alla fine del XVII secolo i Kaffeehaus, raffinate caffetterie delle quali si ritrovano ancora deliziose testimonianze. Fu introdotto nel 1665 dal pascià Kara Mahmud, ambasciatore turco alla corte di Leopoldo I. Nella splendida Napoli del periodo dei Borbone, il culto del caffè giunse con la colta Maria Carolina D’Asburgo, figlia di Maria Teresa, divenuta moglie di re Ferdinando IV di Borbone nel 1768. La giovanissima Asburgo, con non poca ostinazione, si impegnò ad introdurre usi e costumi viennesi nell’etichetta di corte  esaltando l’uso del caffè. Anche se a Napoli era già arrivato da tempo, come in altre parti d’Italia, per mano dei mercanti veneziani, ma era utilizzato per usi farmacologici e curativi. Antonio Latini (1964) nel trattato di cucina “ Lo scalco alla moderna” cita il caffè  come rimedio per i convalescenti. Per il suo colore nero sembrava quasi portasse male e quindi non aveva un grande appeal, fu anche ostacolato non poco dalla Chiesa che lo riteneva la bevanda del diavolo. Delle prime comparse a corte delle tazzine di caffè fa una deliziosa descrizione Lady Anne Miller nel 1771 raccontando in una lettera un ballo alla Reggia di Caserta dove venivano serviti da quelli che furono i primi baristi, vestiti con giubba e cappellino bianco, proprio come si usa ancora oggi. 

 

Scrive la Miller: appena la Regina si accorse che l’intera compagnia avesse cenato, si alzò avviandosi verso la sala del caffè, seguita da quanti ne desideravano. Le pareti sono coperte di scaffali sui quali vi sono tutte le qualità di liquori e vini greci. Vi sono tavole dietro alle quali stanno alcuni giovanotti con berretti e giacche bianche, che fanno e servono il caffè e altri rinfreschi. La Regina fu molto affabile con me, e quasi mi imbarazzò con la sua bontà; essendovi molta gente, e trovando una sedia vuota, mi sedetti, poi voltando la testa e accorgendomi che ero vicino a Sua Maestà mi alzai, ma essa, prendendomi per un braccio, mi obbligò a sedermi di nuovo, e siccome avevo una tazza di caffè, fu soltanto colla massima difficoltà che riuscii ad impedire che il suo contenuto si versasse sul vestito della Regina. 

 

Insieme al caffè, con Maria Carolina arriva il kipferl, qui divenuto il cornetto, e sua sorella Maria Antonietta introdusse entrambi a Parigi essendo moglie di Luigi XIV. Anche i wafer alla nocciola nascono a Napoli nel 1898 con l’imprenditore viennese del cioccolato Josef Manner che scelse le pregiate nocciole vesuviane per creare il “ Manner Original Neapolitan Wafer n° 239”, il famoso Wafer Neapolitaner. In seguito fu comunque Napoli ad eccellere nella preparazione del caffè utilizzando una tostatura dei chicchi decisa in modo che conferisse un gusto ricco e cremoso in tazzina. L’arrivo poi della cocumella nelle case dei napoletani favorì l’inserimento della bevanda nella cultura di questo popolo così vivace e fantasioso. Viene definita la caffettiera napoletana e, anche se nessuno la usa più perché poco pratica rispetto alla moka, un po’ tutti amano averla in casa o regalarla. La cocumella è figlia del francese Morize che le diede vita nel 1819 rivoluzionando il metodo di preparazione che, secondo l’usanza turca, vede cuocere la polvere in acqua. La caffettiera napoletana, attraverso l’uso di un doppio filtro, prepara il caffè per infusione con acqua bollente fatta calare dall’alto.

 

 In seguito alla morte di Maria Carolina, il re Ferdinando IV si consolò in seconde nozze con Lucia Migliaccio alla quale donò Villa Favorita, dotata di una kaffeaus in stile pompeiano, disegnata dall’architetto Antonio Niccolini, utilizzata come padiglione per le feste, poi distaccata dal complesso per esigenze di eredità e assegnata a suo figlio Luigi Grifeo, principe di Partanna, ministro del Re presso il Granducato di Toscana. I kaffeaus di Napoli erano divenuti centri culturali di rilievo per gli illuministi del Settecento e raggiungono la massima espressione ed importanza nel secolo successivo che ne vede numerosi lungo la raffinata via Toledo: nel Caffè Trinacria si recava spesso Giacomo Leopardi in compagnia di Antonio Ranieri.  Nel 1860 nasce il Gran Caffè, il più bello ed importante, detto anche “ Caffè delle Sette Porte”, nel piano terra del palazzo della Foresteria in piazza San Ferdinando. Era proprio l’anno del plebiscito, o pseudo tale, quello in cui Napoli cessa di essere capitale. Eppure proprio in quel periodo, e per almeno altri cinquant’anni, il fervore napoletano esplode facendo riferimento nei caffè della popolosa via Toledo, come se la città si ribellasse all’invasione. Il Gran Caffè era gestito da Vincenzo Apuzzo che ricevette il riconoscimento di Fornitore della Real Casa. Per debiti dovette cederlo a Mariano Vacca che nel 1890 ne affidò il restauro ad Antonio Curri, massimo esponente dell’arte napoletana. Infatti coinvolse i migliori pittori e artigiani della città rendendo unico nella bellezza quello che con lui prese il nome di Gambrinus, dalla divinità della birra nelle Fiandre. Volle rappresentare attraverso le due bevande più diffuse in Europa, il caffè e la birra, uno scuro e di influenza napoletana, l’altra bionda e nordica, l’importanza culturale di Napoli. Quella Napoli, ahimè, ormai molto distante, forse perduta per sempre, che possiamo immaginare ed intuire proprio osservando con attenzione i tanti particolari delle sale del Gambrinus, magari sforzandoci di isolarci dal gran rumore prodotto dal personale, forse non consapevole del privilegio di occupare certi spazi di tale rilevanza. 

 

Ecco alcuni indirizzi partenopei dove bere una buona tazzulella ‘e café:

Gran Caffè Gambrinus in piazza Trieste e Trento

Ceraldi Caffè piazza Carità

Anhaelo Caffè in via Bisignani 3

Caffè Ciorfito via San Biagio dei Librai 91

Caffè Mexico piazza Garibaldi e piazza Dante

Casa del Caffè via Arena alla Sanità 29

La Latteria via Carbonara 110

Gran Bar Sabato piazza Nazionale 47

Caffè Vanvitelli piazza Carlo III 49

 

 

Marina Alaimo

 

 

RIASCOLTA L’INTERVISTA AD ACINO EBBRO DI PAOLA CAMPANA dell’antica torrefazione artigianale a Torre Annunziata (NA)

 

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