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Effetto silhouette e il teatro di Antonio Calenda

[…] se da scienziato Freud esterna le proprie scoperte, Ibsen lo fa da artista … Depista, accenna, occulta, ma dalle pieghe del linguaggio, dalle ombre interiori è facile intuire quanti fantasmi incestuosi padre-figlia popolino la scena, quanti drammi psicologici, quanto l’oscurità abbia da rivelare. (Antonio Calenda)

EFFETTO SILHOUETTE E IL TEATRO DI ANTONIO CALENDA

Chi ha sperimentato la camera oscura e le varie pellicole fotosensibili spesso ha tenuto conto dei consigli di fotografi che si erano a loro volta formati con altri che avevano sperimentato le lastre di vetro spalmate di collodio. Il loro problema, quello da affrontare di petto, era connesso alla carenza di luce, essendone richiesta una quantità enorme per impressionare il materiale utilizzato. Usavano soprattutto due espedienti: I° il soggetto fotografato doveva sottoporsi alla tortura di mettere la faccia di fronte al sole ovvero al faro o altre fonti di luce adeguate (una finestra, a esempio). Entrambi dovevano stare di spalle al fotografo; II° il malcapitato soggetto doveva stare perfettamente immobile, essendo spesso richiesto amplissimi tempi di apertura del diaframma. Queste erano le regole auree ma il tempo e le tecnologie che si sono avvicendate hanno stravolto tutto e si può affermare sia un errore seguire quelle tecniche qualora si debba fotografare una persona. Ovviamente ci sono le eccezioni e attengono soprattutto alla qualità e intensità della fonte luminosa. Qualora non disturbasse e fosse tenue, in maniera tale da attenuare le ombre portate (si pensi alla classica ombra sotto il naso che deturpa l’intero volto), si potrebbe ancora fotografare alla luce di quelle esperienze. Va anche considerato che quasi mai la luce ha una sola origine. Padroneggiare varie fonti luminose risulta, pertanto, uno strumento creativo essenziale e a ciò contribuiscono ancora le nuove tecnologie che con poco sacrificio economico consentono di ottenere risultati molto interessanti. Ciò è possibile soprattutto grazie alla possibilità di usare in maniera combinata la luce naturale e quella del flash e conta poco se si usi solo una fotocamera compatta. Sta poi al fotografo scegliere l’ora migliore. Spesso lo si fa in considerazione dei propri gusti o di quelli del committente. In ogni caso, è ampiamente preferibile la luce diffusa attraverso un cielo coperto rispetto a quella dovuta a un cielo azzurro. Il soggetto ne guadagna in termini di morbidezza dell’immagine, dovuta anche al fatto che i contrasti sono attenuati senza l’intervento del fotografo. La questione richiede un approccio diverso qualora si voglia sfruttare un altro strumento creativo: il controluce. È grazie a questo che si può ottenere silhouette in grado di favorire la narrazione per immagini. Per certi versi, è la più teatrale tra i risultati ottenibili ma occorre sapere che molte regole dettate per la buona fotografia sono destinate a saltare. Per saperne di più e vedere ottime immagini.

Tecnicamente si tratta di sfruttare il rapporto geometrico che lega il soggetto alla fonte luminosa (di solito il sole ma si possono sfruttare anche altre fonti) e al fotografo. Il soggetto, ovviamente, si deve interporre tra la sorgente luminosa, che è di fronte o lateralmente rispetto alla posizione della fotocamera, e il fotografo. L’angolo di incidenza deve essere inferiore a novanta gradi. Di solito, volendo produrre un ritratto ravvicinato, si dà anche un colpo di flash, fill-in flash ovvero luce di riempimento, e ciò, purtroppo, non sempre basta a risolvere problemi prevedibili, quali la scarsa resa degli obiettivi e i molteplici riflessi. La post produzione può risolvere alcuni di questi problemi ma è preferibile cercare di preventivare quelli che l’esperienza fa intuire prima dello scatto. A esempio, è facile dedurre che la luce del flash non sarà adeguata se il soggetto non si troverà nella distanza di piena operatività di quel tipo di luce aggiuntiva. Neppure gli esposimetri funzionano al meglio in condizioni similari e pertanto occorre ricorrere al bracketing. Ovviamente, ogni questione legata a questo tema va affrontata alla luce del risultato che si intende ottenere e l’elasticità nello scegliere gli strumenti e le tecniche è fondamentale. È ovvio che, a esempio, se si volesse ottenere una immagine drammatica (forte contrasto tra bianchi e nero) non si penserà alle tracce di colore che sopravvivono alle prime tenebre. Si cercherà di collocare il soggetto in maniera da fare emergere appunto il dramma che anche in chiave psicologica è nel forte contrasto. Non interesseranno molto neppure i grigi, di solito preferiti in una vasta gamma così come interesserà poco il paesaggio circostanze. Anche i particolari della figura ritratta diventano irrilevanti. Qualora si sbagliasse in termini di sovraesposizione o sottoesposizione si potrebbe intervenire in post produzione con risultati accettabili, soprattutto qualora si fosse scelto il Bw. Per non affidarsi al caso e sempre per cercare di prevenire i problemi, converrebbe effettuare una misurazione spot sulla zona più chiara del cielo che vorremo resti inquadrato, sovraesponendo di uno stop almeno. Può convenire anche l’uso dei filtri e in tal caso è opportuno usare quelli digradanti o Nd (neutral density), mentre può risultare dannoso il filtro polarizzatore che farebbe correre il rischio di trovarci di fronte a riflessi imprevedibili.

Sulla teatralità di questo tipo di fotografia: è facile comprendere come emerga il visto/non visto o il solo intuito. Oltretutto, è assurdamente grande la libertà dell’osservatore. Egli ci può mettere tutto ciò che ha dentro e non vi è ombra o luce che non sia capace di favorire la discesa dentro sé stessi, magari anche alla ricerca della propria storia apparentemente dimenticata. Vi è, dunque, una corrispondenza chiara con il tessuto narrativo emergente a teatro che è fatto dalla storia emergente come da quella che solo si intuisce in filigrana. È la trama non esposta che fa la differenza. Si pensi alla recente Finis Terrae, drammaturgia di Gianni Clementi da una idea del regista Antonio Calenda, produzione Fondazione Istituto Dramma Popolare – Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia San Miniato, Fondazione Istituto Dramma Popolare. Per raccontare la trama in maniera soddisfacente occorrerebbe scegliere con attenzione il come farlo. Come è possibile rendere conto di ciò che una storia narrata sulle tavole di un palcoscenico fa intuire stando lì, seduti tra la gente e in relazione con gli attori? Nel caso di questa opera è facile raccogliere l’alta valenza linguistica ma la metafora attraverso cui si raccontano le vicissitudini dei popoli migranti si può coglierla appieno solo partecipando alla messa in scena. E perché mai farlo? Perché il testo e le soluzioni registiche integrano una ipotesi di denuncia quanto mai dura: l’indifferenza alla guerra, alla fame, alla povertà che emergono da vari tipi di linguaggi, compreso quello corporeo. La stessa scelta dei protagonisti svela sensi che paiono in sintonia con questa chiave di lettura. Basta leggere i nomi e qualcosa già si coglierà: Nicola Pistoia, Paolo Triestino, Francesco Benedetto, Ismaila Mbaye, Ashai Lombardo Arop, Moustapha Dembélé, Moustapha Mbengue, Djibril Gningue, Ousmane Coulibaly, Inoussa Dembele, Elhadji Djibril Mbaye. Per saperne di più.

Alessia Orlando e
Michela Orlando

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