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Fotografia di architettura

“Ho scoperto la ‘lentezza dello sguardo’. Uno sguardo lento, come era stato per Eugène Atget o Walker Evans, uno sguardo che mette a fuoco ogni cosa, che porta a cogliere tutti i particolari, a leggere la realtà in un modo assolutamente diretto: quindi il grande formato, il cavalletto, un ritmo rallentato, la luce così com’è, senza filtri, guardare e basta. In contemplazione davanti a questa meraviglia della natura ricca e mutevole. La fotografia rischia persino di essere qualcosa di estraneo, che infastidisce, ma che si usa perché è l’unico mezzo possibile per raccontare ad altri quello che si prova, si vede e si comprende. E in questo senso è anche un documento: di quello che si è visto. Gabriele Basilico, Architetture, città, visioni” (Riflessioni sulla fotografia a cura di Andrea Lissoni, Bruno Mondadori, 2007)

FOTOGRAFIA DI ARCHITETTURA

Mizziga! Che accidenti è questo!

Non c’è fotografo che prima o poi non l’abbia detto, con più o meno forza, con più o meno esplicita carica scurrile. Il siciliano avrà potuto usare un’altra parola che inizia per emme, forse, ma la sostanza è sempre la stessa: lo stupore dinanzi alle forme di un palazzo, non la torre di Pisa, che era stato visto diritto e adesso, dopo aver sviluppato il negativo e stampato il positivo o scaricato la foto sul video, pare stia per crollare. Si è verificato quel che Gian Lorenzo Bernini sperò accadesse (si immagina scherzosamente o per maledizione cattivella) al palazzo progettato dal Borromini a Roma, in piazza Navona. Pare che per tale ragione, per significare il timore che sarebbe caduto, escogitò e realizzò una statua con la mano rivolta verso quella struttura, come se il protagonista volesse ripararsi dalle pietre cadenti. 

È la questione delle linee cadenti, una delle problematiche che affliggono i fotografi di architettura. Altre faccende delicate riguardano i riflessi e le sovraesposizioni, con una conseguenza: ciò che era stato visto come fotograficamente fascinoso e potente, non solo interessante per forma, adesso appare scialbo e inutilizzabile. Fotografando in esterna è solo un problema di luci: possono risultare esageratamente forti. Negli interni, molto utilizzati in questo genere di fotografia, è necessario utilizzare luci aggiuntive (flash o fisse che siano, in base al progetto fotografico), a meno che non si voglia giocare sui contrasti e sulle varie declinazioni di luce che provenga da quelle presenti negli spazi o dall’esterno (finestre aperte, vetrate, porte, abbaini, fori tetti e solai di calpestio lasciati parzialmente aperti contro il cielo o difesi da cristalli o plexiglas …). In questo ultimo caso sarà possibile scoprire di non vedere nulla al di là del proprio naso. Tecnicamente: si tratta di scarsa profondità di campo. Sarà sufficiente chiudere il diaframma e andrà benissimo da f/8 a calare. Ciò implicherà un maggior tempo di apertura e, pertanto, si dovrà considerare la necessità di usare un treppiedi o almeno scattare poggiando la fotocamera su qualcosa di sufficientemente pratico, magari, con il cavetto flessibile meccanico/pneumatico. Per approfondimenti su questo accessorio.

Naturalmente si può tentare lo scatto a mano libera e addirittura in automatico. È questione di mano ferma ma anche di coraggio non stupido. Accade, talvolta, di scattare senza pensarci, quasi come colti da un raptus dovuto alla bellezza del luogo e all’improvvisamente sopraggiunta sindrome di Stendhal. È la situazione dello stupore positivo. Bocca aperta, meraviglia: quella foto non sarai mai più in grado di farla perché, come l’acqua di un fiume, il contesto non sarà mai più lo stesso, sia per condizioni di luce che per il tuo particolare stato emotivo. Ciò significa che anche se la foto non sia stata pianificata, non è inevitabile arrendersi e ripromettersi di ripassare con la strumentazione necessaria. 

Inutile dire che i consigli della manualistica sono pregevoli e non va disdegnato lo studio sia della struttura che del contesto. Ciò potrà influenzare la ricerca stilistica e il risultato. Si potrebbero fare miliardi di esempi ma è ovvio che se ti trovi davanti a una delle tante case italiane dove ha dormito Giuseppe Garibaldi, sarà difficile non cedere alla visione che si ha del personaggio e dei Mille. Tornerà utile in termini di gratitudine degli abitanti del luogo ma anche da parte dell’osservatore. Magari avrà imparato dove davvero Garibaldi fu ferito, dove davvero incontrò Vittorio Emanuele II, dove i Massoni lo accolsero quando giunse nel Vallo di Diano e si scoprirà, magari, che passò e si inginocchiò sotto l’arco del Sacrario davanti alla chiesa della Ss. Annunziata di Padula (Sa) dedicato ai Trecento di Carlo Pisacane (eretto grazie alla Legge n. 635, del 22 giugno 1911, voluta da Giovanni Camera, Massone locale, che si distinse, pare, per la sua attività clientelare, come si evidenzia qui). Per non dire di una data che l’osservatore potrà decidere di mandare a memoria grazie alla tua foto di una strada, di un castello, di un palazzo o di una piazza, nata dallo studio approfondito, che ci fa ricordare l’eroe dei due mondi magari anche per faccende strane e poco edificanti. Si pensi al 7 Settembre 1860, quando era in corso la festa nazionale delle Due Sicilie, ovvero la Piedigrotta. Il Nostro è al culmine nella sua risalita con i suoi Mille. Il Re Francesco II di Borbone lascia Napoli, diretto a Gaeta. Garibaldi per prima cosa va a omaggiare la Madonna, per affascinare subito i napoletani. È solo una scorciatoia, lo si sa, che porterà alla svolta la camorra. Uscirà ben presto dalla dimensione che oggi diremmo a misura d’uomo, quella dei quartieri. Infatti, il Dittatore era giunto nella Capitale in treno, davanti allo sguardo protettivo di Tore ‘e Criscienzo, al secolo Salvatore De Crescenzo, il capintesta della camorra condannato, poi amnistiato e infine nominato Questore e capo della guardia cittadina. 

Questa storia si può narrare con la fotografia di architettura, magari percorrendo, con lo sguardo e l’obiettivo fotografico, l’ultima parte del viaggio garibaldino: la schiera di palazzi delle vie battute da Garibaldi e il corteo che lo accompagnò al suo arrivo: via Marina, il Maschio Angioino, Largo di Palazzo, ora Plebiscito, via Toledo, Palazzo Doria D’Angri, da cui si affacciò quell’uomo barbuto per arringare la folla e riposare, prima di fare appunto visita alla Madonna di Piedigrotta, passando per la Riviera di Chiaia.

Ritornando al tema davvero scottante per questo tipo di fotografia, ovvero quello delle linee cadenti, va da sé che l’approccio al genere fotografico risente dei canoni rinascimentali. Sono quelli che regolano la prospettiva. Il principio fondamentale sta nella necessità di rispettare i parallelismi delle linee verticali. Osservare questo fondamento implica che la rappresentazione fotografica debba rispettare la forma del prisma e quella della piramide tagliata al vertice. Qualora si accedesse alla fotografia architettonica che riprende le linee come fossero il tronco di una piramide, è chiaro che l’angolo di ripresa sarà determinante e produrrà risultati contenuti in un amplissimo ventaglio. Le linee cadenti potranno avere varie inclinazioni e talvolta rendono gradevole la foto. Possono, tuttavia, renderla illogica e inutilmente differente rispetto a quel che si era visto. Il fenomeno è dovuto al fatto che l’occhio umano per natura corregge le linee cadenti. Esse sono orientate tutte verso il centro delle linee verticali. La fotocamera non corregge alcunché giacché in genere non è, assieme al sensore, orientata verso l’alto e, pertanto, non è parallela alla struttura. Il fenomeno, per chiarirlo, è uguale a quello che deve affrontare un muratore quando traccia le linee guida per costruire un muro. È costretto a usare la livella, quell’attrezzo noto a Totò poeta, con la goccia d’aria che deve stare nel posto giusto per essere certi che il parallelismo sarà esatto.

Se tutto ciò ha prodotto un tabù, conseguente alla produzione sia di disegni che di foto, per il quale il parallelismo deve essere rispettato sempre, in realtà sono moltissimi gli esempi che hanno derogato a queste leggi estetiche. Non a caso si sono affermati obiettivi come il grandangolo, utilizzato senza altre applicazioni, innestato al corpo macchina puramente e semplicemente, e quel tipo di obiettivo noto come fish-eye o fisheye, ovvero l’occhio di pesce che produce immagini con un angolo di campo di almeno 180°. È usato anche nella cinematografia e in tal caso è un grandangolare estremo (ultragrandagolare).

In ogni caso, per i puristi, facendo salva la possibilità di allargare l’inquadratura e successivamente, raddrizzare per recuperare il recuperabile in post produzione, è auspicabile l’uso delle ottiche basculanti. Queste funzionano nel rispetto della cosiddetta regola o condizione di Scheimpflug. Essa sostiene che in un sistema ottico il piano focale (per la sua sintetica definizione si può accedere qui), cioè l’interazione tra l’obiettivo e il soggetto, si incontrano su una stessa retta. In fotografia questa regola trova applicazione nei banchi ottici ovvero nelle ottiche decentrabili che sono anche definite ottiche con controllo prospettiva. 

Malgrado tutto ciò, questo genere di fotografia, a riprova che gli ostacoli talvolta aumentano il piacere, è molto praticata e non è un caso che la prima fotografia nota si incentri su una struttura architettonica, notoriamente immobile. Si è nell’estate del 1826 e Joseph-Nicéphore Niépce, dopo molteplici tentativi, crea la prima immagine fissa. Lo può fare grazie all’effetto della luce. Si avvalse di un materiale ovviamente foto – sensibile. Quel che ancora oggi si può ammirare è la veduta che quotidianamente godeva dalla finestra del suo studio a Gras, a un tiro di schioppo da Parigi. La lastra di peltro che utilizzò richiese addirittura una giornata intera di esposizione e misurava 16 X 20 cm. L’aveva spalmata con bitume di Giudea. La lunga esposizione consentì alla luce di produrre l’effetto voluto, ovvero l’indurimento e lo sbiadimento del bitume. Il risultato complessivo fu il chiaroscuro del soggetto ripreso sul supporto e un intervento ulteriore di asporto, con olio di lavanda e petrolio, consentì la rimozione delle parti rimaste intatte nel processo, quelle che la luce non aveva intaccato. Non molti anni dopo, si era già profilata la necessità di raddrizzare le linee cadenti e pare che Leopoldo Alinari, nel 1854, mise in azione la prima ipotesi di ottica decentrabile, a Firenze.

Per vedere pregevoli foto di architettura e non solo si può cliccare quiPer approfondimenti anche storici.

Alessia Orlando e
Michela Orlando

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