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I Bronzi di Riace come l’insieme di Maldelbrot

“Vede, applaudono me perché mi capiscono tutti; applaudono lei perché non la capisce nessuno”, Charlie Chaplin ad Albert Einstein, entrando in sala per la prima di Luci della città.

FOTOGRAFARE: I BRONZI DI RIACE COME L’INSIEME DI MALDELBROT

È una arte quella della composizione fotografica (compositing), ovvero l’accostare vari elementi fotografici per produrre una unica immagine che realizzi un concetto o crei un’illusione sorprendente, cui nessuno ha mai pensato per singolarità dell’accostamento, per l’uso dei colori e così via. I nuovi strumenti utilizzati in post produzione ma anche le tecniche di ripresa possono essere utili sia per immaginare e realizzare progetti per foto in interni che in esterni, ma anche sfondi e fantasy. Quel che serve è partire da una visione alternativa della realtà, abituarsi al pensiero trasversale. In tal senso le arti visive si sono avvalse di una specie di mantra, di un termine che è diventato un tormentone tuttora in voga e utile: creatività. In sintesi: è l’attitudine a fare una semplice operazione, tipo due più due fa … ciò che non ti aspetti e sicuramente non solo quattro. È importante riuscire a sorprendersi per sorprendere. Occorre predisporsi a imparare qualcosa ogni volta che si intenda non limitarsi a riprodurre la realtà in maniera pura e semplice, per essere sempre originali. Ciò non si può certo farlo per natura, senza approfondire, e si tratta anche di valutare già con sguardo trasversale il mondo che ci circonda e che ben conosciamo, sapendolo padroneggiare per fotografarlo, cogliendone aspetti sorprendenti o inventandoli di sana pianta per esprimere la propria idea. Un antico proverbio Yiddish racconta di un verme che si trova dentro un cavolo: il cavolo è tutto il suo mondo. Come può il verme trovare la via per uscire dal cavolo se non si rende conto di esserci dentro? Questa del verme e del cavolo è la rappresentazione della situazione in cui si vive imprigionati nelle conclusioni apparentemente logiche e inconfutabili. È quello cui si giunge tramite il pensiero razionale che è il frutto delle esperienze. I grandi geni affermatisi nell’ambito delle arti visive lo hanno stravolto, talvolta anticipando di decenni soluzioni poi apparse scontate. Prendendo a esempio Charlie Chaplin, si può avere conferma di una genialità che ha partorito soluzioni tecniche innovative anche nel cinema ma spesso gettando luce sul mondo reale, sull’economia, sulla politica… Quando è il vagabondo Charlot nel film Luci della città, usa dormire sulle ginocchia della Giustizia nella statua chiamata “Pace e Prosperità”. Già questo dovrebbe apparire rilevante sia come contesto che come capacità espressiva. L’incontro dell’uomo con il suo prodotto artistico potrebbe essere insignificante (l’uomo che guarda l’opera d’arte a bocca aperta) ma può anche esprimere la frustrazione per la carenza di giustizia, per l’incuria o segnalare un desiderio non solo individuale e così via. Nel film, Charlot incontra una fioraia cieca che lo scambia per un riccone, immaginando che a lui sia connesso il rumore di una potente automobile. Gli chiede di acquistare un fiore. Scatta il processo di fascinazione che non ha bisogno di parole (il film è muto). Charlot cede e acquista il fiore, con l’unica moneta posseduta. Come non bastasse, per disegnare l’amabile personaggio, Chaplin lo mette in condizione di salvare un vero milionario che, ubriaco scotto, vuole gettarsi nel fiume. Quanto tutto sembrerebbe prendere una piega favorevole per il protagonista dell’imperdibile film, si ritrova a dover fronteggiare ‘’inatteso cambiamento di umore del riccone. Adesso è freddo e lo fa cacciare di casa. Tra gli alti e bassi che la vita pone di fronte, Charlot-Chaplin entra finanche in prigione, ovviamente da innocente. Il film si avvia, così, verso un finale che ogni tanto converrebbe rivedere poiché si incentra certamente sul riconoscimento del benefattore da parte della protagonista, che ormai ci vede, grazie a lui, ma soprattutto sulla domanda di questi e la risposta dell’altra: “Potete vedere ora?” e “Sì, ora posso vedere”. È una frase ricca di senso. A questa conclusione si giunge anche ragionando sulla storia umana di Chaplin: certamente travalica il senso letterale. È per questa trama non esposta, così come accade normalmente a teatro, dove conta non solo la storia raccontata ma anche quella che si lascia intuire, che la scena è considerata una delle più significative della storia del cinema.

Considerato, altresì, che a questo film Chaplin pensò già nel 1929, quando era esploso il sonoro, si capisce quanto fosse capace di narrare aspetti rilevanti in pochi fotogrammi, solo con le immagini e rinunciando alla parola. Tuttavia, non svela il suo approccio dal punto di vista della professionalità, dello scrupolo con cui affrontava ogni scena. Lo si può intuire considerando che la scena in cui la fioraia scambia il protagonista per un riccone fu ripetuta moltissime volte: si contarono ben 342 ciak! Una enormità che la pone al primo posto in assoluto nella storia del cinema.

Il saper vedere, dunque, è una esigenza che si impone anche come azione rilevante nel cinema, esempio straordinario di arte visiva. Si tratta di un bisogno che si deve soddisfare incessantemente e si è chiamati a considerare questa necessità anche ogni qual volta si debba ritrarre una opera d’arte, con l’intento di dire altro in controluce, non limitandosi a una rappresentazione descrittiva. Ciò rappresenta un’azione dai profili artistici non fine a sé stessa; serve, infatti, anche a rendere più facile la comprensione delle opere d’arte, anche se talvolta lo stupore e la meraviglia che nascono dal vedere una opera, non richiedono necessariamente la comprensione di alcunché.

Altro discorso, ovviamente, andrebbe fatto volendo attribuire alle fotografie il valore di documentazione dello stato di conservazione delle opere fotografate. Non si tratta, in questo caso, di un ruolo marginale della fotografia. Si pensi alle opere d’arte trafugate, a quelle rinvenute rocambolescamente, alle strutture architettoniche… Tutte opere d’arte che possono essere tenute nascoste in una cassaforte, trovate da un rigattiere, essere distrutte da un sisma o da una colata di fango se non da una colata lavica come nel caso di Pompei ed Ercolano. È evidente che la documentazione fotografica, nell’ultimo caso, varrà anche come fondamentale strumento per la ricostruzione o recupero. La tecnica di ripresa cambia e si evolve nel tempo ma qualora manchino fotografie scattate ad hoc è chiaro che qualsiasi riflesso filmato potrà tornare utile, anche quelli frutto di scatti dilettantistici. Una ottima analisi della faccenda, che tiene conto anche delle esperienze maturate dai grandi fratelli Alinari è qui.

Fondamentale l’approfondimento per approdare alle nuove tecniche di ripresa e assecondare tendenze innovative. Se, infatti, gli Alinari erano costretti ad avvalersi di maestranze per tenere le persone fuori dalla scena da ritrarsi, adesso non si esclude l’essere umano che serve a movimentare la scena. Altro tema di notevole interesse: le linee cadenti delle strutture artistiche (palazzi, castelli …). Al di là delle soluzioni tecniche e delle apparecchiature che evitano all’origine ogni difetto, nell’articolo segnalato si può anche verificare come l’intervento in post produzione, tramite Photoshop, possa risolvere il problema.

Meno problematico fotografare i quadri. I limiti delle immagini si ritrovano soprattutto nei riflessi. Basta un filtro polarizzato, quello che blocca il passaggio delle onde luminose riflesse dall’acqua o da altre superfici riflettenti. Spesso è usato anche per migliorare il cielo, disturbato dal vapore acqueo. Esso apparirà più saturo e limpido.

Rilevantissime, sempre sul piano documentale, le foto realizzate durante i processi di restaurazione. Saranno in grado anche in futuro di far seguire l’iter di tecniche/modifiche cui è sottoposta l’opera per preservarla ed eventualmente sottoporla a ulteriori interventi. Non sempre, infatti, le opere ritrovate sono in uno stato ottimale. Tra i reperti rinvenuti in migliori condizioni si annoverano gli imponenti Bronzi di Riace, emersi alla nostra conoscenza dal mar Ionio, a 300 metri dalle coste di Riace, appunto, nel 1972. Adesso, come meritano, sono non solo il biglietto da visita del Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria che li protegge ottimamente, ma anche della Calabria, dell’Italia e, in fondo, dell’umanità. Data la loro importanza, è ovvio che gli interventi richiesti dovessero essere affrontati con competenza commisurata alla rarità dei reperti originali di matrice ellenica. Non a caso le statue furono ricoverate a Firenze, presso l’Opificio delle Pietre Dure, tra i laboratori di restauro più specializzati al mondo e, adesso, dopo il rientro delle statue al Museo, finalmente realizzate, a cura dell’Enea, le nuove basi antisismiche per assicurare la stabilità dei due “guerrieri” anche per l’ipotesi di intense scosse di terremoto, è richiesto il rispetto di regole precise per poterle ammirare: una specie di “decontaminazione” che prevede l’accesso in una sala pre-filtro, dove si proiettano filmati sulla storia delle due statue, quindi il passaggio nella sala-filtro, dove è in funzione un getto d’aria che depura l’ambiente. Inoltre, l’accesso è disciplinato dal numero: massimo venti persone per gruppo. Tutto ciò arricchisce l’approccio alla visita, rendendo più interessante l’esperienza. Stesse valutazioni, e in certi casi le medesime regole, andrebbero applicate espressamente, è ovvio, per le opere campane conservate nei musei e nelle aree notissime di Ercolano, Pompei, i Campi Flegrei, la certosa san Lorenzo di Padula, i templi di Paestum, Velia … Oltre alle fotografie di epoca anche non recente, si segnala che molte opere appaiono in quadri di pregio che pure potrebbero essere utili per il recupero della integrità dei soggetti eventualmente lesa di nuovo, come purtroppo sta accadendo sia a Pompei che a Velia.

Va da sé che, alla luce dei fatti che accadono in varie aree archeologiche italiane, si è fatta pressante l’esigenza di cambiare rotta, anche su questi temi. Sarebbe bello poter vedersi chiudere il capitolo dell’incuria di molte opere, cosa che danneggia l’immagine stessa di questa nazione, con il dialogo creato da Charlie Chaplin: “Potete vedere ora?” e “Si, ora posso vedere”.

Alessia Orlando e
Michela Orlando

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