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Frank, arriva nelle sale il musicista mascherato

Quelle rare, quantitativamente trascurabili volte in cui il cinema indipendente straniero riceve considerazione dalla distribuzione italiana sono sempre un piacere. Se poi si pensa che anche quello nostrano troppo spesso rimane ignorato dal grande pubblico, allora l’arrivo nelle sale – seppur poche – di questo film può essere considerato un vero e proprio evento. Lenny Abrahamson, regista della pellicola, è indubbiamente poco noto nello Stivale, considerando che l’unico suo film precedentemente giunto sui nostri schermi, pur essendo pluripremiato e osannato dalla critica, fu così debolmente sponsorizzato da incassare appena settemila euro al botteghino dopo la prima settimana. Decisamente più fortunato, sebbene rimanga una proiezione di nicchia, è Frank, ultimo lavoro del regista irlandese.

La sceneggiatura è composta da un susseguirsi di vicende a dir poco grottesche, ma non ci si meraviglia affatto di ciò che accade sullo schermo visti i bizzarri personaggi protagonisti. Il primo a esserci presentato è Jon (il Bill Weasley della saga di Harry Potter), un tastierista mediocre e compositore a tempo perso alla continua ricerca di ispirazione, che come la Jess Day di New Girl canta di tutto ciò che vede: signore in cappotto rosso con la borsa e case che sembrano scatolette. Mi è impossibile non provare subito simpatia per l’impacciato ragazzo, probabilmente perché anche a me capita di canticchiare mentalmente ciò che osservo quando sono sola (questo però non vi riguarda, andiamo avanti). Trovandosi nei pressi della spiaggia locale, Jon scorge il furgone dei Soronprfbs, band dal nome singolare quanto la loro musica e assolutamente impronunciabile. Il loro tastierista sta cercando di annegarsi, intervengono dunque le forze dell’ordine e Don, agente del gruppo con una particolare perversione per i manichini, introduce la situazione al ragazzo e subito decide di promuoverlo al ruolo di nuovo membro della crew dopo essersi accertato che sapesse suonare almeno il do, il fa e il sol.

Durante il primo quasi-concerto con la band Jon incontra finalmente Frank, cantante, musicista e compositore. Un uomo sicuramente sopra le righe per il suo modo di esprimersi, la sperimentazione musicale estremizzata ma soprattutto la peculiare mania di indossare giorno e notte una gigantesca maschera di cartapesta. Trattenere le risate quando i due enormi occhi azzurri stilizzati scrutano il nuovo tastierista immobile sul palco è praticamente impossibile e perfino lo spettatore rimane sconcertato alla vista dell’uomo col testone artigianale. È solo una questione di abitudine, però, perché affezionarsi all’eccentrico artista è inevitabile. Frank è sempre pronto a coinvolgere il gruppo in nuove esperienze e ha la soluzione per tutto: è il padre, la guida della sua band, grazie al quale si riesce a venir fuori anche dalle situazioni che sembrano non avere vie di scampo. È un leader sicuro, incoraggiante e intraprendente, che cerca costantemente di andare oltre, esplorare l’ignoto impegnandosi nella produzione di composizioni che, non a caso, sono sperimentali: usa bastoni, porte, cannucce e tutto sembra essere fonte di incredibile ispirazione, perché l’espressione si può servire di ogni mezzo possibile e l’unico modo per trovare quello più adatto a sé è procedere per tentativi. Liberarsi dei propri limiti è però molto più difficile a farsi che a dirsi e difatti lo stesso protagonista non riesce a rendere giustizia alle sue predicazioni. «Perché nascondersi?», chiede al tastierista, mentre però sul suo collo troneggia l’enorme maschera che gli copre il volto. È la sua prigione, da cui non riesce a liberarsi, una falsa e instabile identità che solo un forte impatto (capirete di cosa parlo guardando il film) può rompere.

In questo turbinio di azioni e reazioni, stimoli e smarrimenti, l’unica soluzione per liberarsi completamente dall’angoscia è mostrarsi, soddisfare a pieno le proprie necessità senza imporle agli altri e lasciando che ognuno sviluppi ed esterni al meglio la propria personalissima visione dell’esistenza. Insomma, che vogliate fare musica orecchiabile o d’avanguardia, che vi sentiate un po’ matti o perfettamente stabili poco importa, ciò che conta è non illudersi di non meritare di esistere solo perché non si indossa la maschera di qualcun altro. Sentirsi fieri di sé è il primo passo per non farsi opprimere dal senso di inferiorità e dal continuo sminuirsi.

La comicità portata all’estremo, dove anche la morte riesce a diventare grottesca, è il più interessante aspetto del film di Abrahamson, che non eccede in pomposi virtuosismi, lasciando un lavoro efficacemente minimale. Nessun pezzo del puzzle risulta essere superfluo, in particolar modo la colonna sonora, onnipresente per forza di cose. I testi dei brani (dalla qualità certamente opinabile) alimentano il surrealismo dello humor e gli arrangiamenti sperimentali sono perfetti per una produzione indipendente. Il suo è un cinema comunicativo, che cura l’estetica senza farne un elemento portante e che risulta per questo essere perfettamente equilibrato. La pellicola, inoltre, non è scevra da meravigliose citazioni: dal paragone tra la situazione di Frank e quella dell’Elephant man di Lynch alla scena in cui si replica palesemente lo spargimento delle ceneri già presente in Il grande Lebowski dei fratelli Coen, assolutamente identica sia nella scelta del barattolo di latta che nella folata di vento che sparge i resti sul povero chitarrista della band (anche se il risvolto si rivela essere totalmente differente).

Insomma, per farla breve, Frank è uno dei film più intelligentemente esilaranti che abbia mai visto. Michael Fassbender, pur essendo limitato dalla maschera del personaggio, riesce comunque a rendersi incredibilmente espressivo con la parola e ricordando di tanto in tanto che i suoi muscoli facciali non sono atrofizzati descrivendo le movenze del viso. Che poi siano quelle reali o meno è impossibile da accertare, ma questo espediente alimenta l’aspetto comico del film e contribuisce a sviluppare l’idea che ciò che si mostra di sé non sempre corrisponde al vero. Ne è un esempio perfetto il personaggio di Maggie Gyllenhaal, freddissimo e radicalmente legato alla produzione consueta del gruppo, ma che nasconde più che nobili sentimenti e che viene valorizzato al meglio dall’interpretazione dell’attrice, sorella del più noto Jake anche sulla pellicola (Donnie Darko) e non estranea alla comicità studiata (Hysteria).

Visto che dall’altra parte dello schermo non potete verificare che sia effettivamente così, vi lascio sapere – come farebbe Frank – che il ricordo di alcune scene mi lascia un’espressione incredibilmente felice: sorriso divertito, faccia gioiosa! O forse ho una maschera anch’io? No, scherzo, questo film è davvero bello, andate a vederlo, sbrigatevi.

Lucia Liberti

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