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Il giovane favoloso e altre delusioni

Premetterò con dispiacere che, più che una recensione, mi ritroverò a stilare un elenco dei diversi e numerosi aspetti negativi del film e dei pochi e sparuti accenni di decenza. Devo ammetterlo, Il giovane favoloso non mi è piaciuto affatto, forse per colpa delle mie troppo alte aspettative che sono state ampiamente deluse. Anche questo, come il precedentemente recensito Pasolini, è un film biografico e arriva direttamente da Venezia. “Grazie” – tra molte virgolette – alla regia di Mario Martone, ecco giungere nelle sale Giacomo Leopardi, o almeno quello che questa pellicola spaccia per il fu poeta.

Prima di addentrarci nell’oscura e fitta selva di difetti, un encomio va rivolto sicuramente a Elio Germano, che veste un ruolo non facile e lo fa nel migliore dei modi, ma questo purtroppo non basta a dare valore al lavoro complessivo. Per quanto ottima possa essere l’interpretazione del protagonista, non ci si allontana comunque dalla visione stereotipata e scolastica del poeta, alla cui personalità non si aggiunge nulla di nuovo, che non viene esplorato nei suoi aspetti meno noti. Unico rilevante tentativo di distaccarsi dalla visione comune di un Leopardi nichilista è quello che vede il poeta ribattere con pungente sarcasmo alle accuse di pessimismo. Un tentativo che però risulta mal riuscito, visto che questo costante atteggiamento di ostilità finisce per dare un’immagine misantropa del protagonista, che non gli appartiene realmente e che può risultare fuorviante per un ipotetico spettatore che non ne conosce bene la filosofia.

Il pensiero del poeta non viene adeguatamente approfondito: non se ne percepisce l’evoluzione e le citazione dei soliti versi noti non è di alcuna utilità, ma si riduce a una contemplazione sterile della poesia dell’autore. Volendo fare un parallelismo, Leopardi sentiva il bisogno di distaccarsi dal mero studio e dalla trasposizione dei testi antichi per avvicinarsi alla produzione propria. Martone, invece, si limita a tradurre, in una rigida trasposizione biografica che non presenta rilevanti tocchi personali o punti di vista alternativi.

D’altra parte la stessa regia è schiava di un’estetica fine a se stessa e non è priva di errori, come la ricorrente instabilità dell’inquadratura che vorrebbe restituire dinamicità, ma finisce per confondere. Una di queste scene è quella in cui Silvia, la ben nota ragazza di Recanati, fa distrattamente cadere delle castagne – o almeno quelle che sembrano esserlo – che recupera con l’aiuto di Giacomo. Probabilmente la peggiore in assoluto del film, in cui l’eccessivo tremolio della camera non dà nitidezza ai movimenti e rende l’atmosfera inutilmente ansiosa. In questo mal di mare registico, lascio adagiarsi un velo di pietà e vergogna sulla battuta affidata alla ragazza, che le conferisce uno spessore intellettuale che nemmeno Herbert Ballerina (che però è un personaggio demenziale e senza pretese) potrebbe invidiare.

La sceneggiatura riesce a dare il peggio di sé probabilmente solo in un’altra sequenza, quella che vede Leopardi addentrarsi in un bordello incoraggiato da Ranieri. A parte il fatto che i due amici sembrano più il secchione sfigato e il quarterback donnaiolo di una commediola americana (e non i due intellettuali che in realtà erano), la Napoli di Antonio viene restituita allo spettatore tramite i soliti cliché: dall’abuso del dialetto alla smorfia, passando per gli scugnizzi che si prendono gioco del poeta, chiamandolo ‘o scartellato e costringendolo ad abbandonare la compagnia della cortigiana. Inutilmente compassionevole è la sensazione che questa scena trasmette, contribuendo alla stereotipica immagine di un Leopardi inguaribilmente infelice, insicuro, destinato all’emarginazione, che può solo essere compatito.

La stessa ricerca estetica, che avrebbe potuto rappresentare uno degli aspetti positivi della pellicola, sfugge completamente al controllo del regista, che in diverse inquadrature lascia troppa aria attorno al soggetto, ignorando completamente norme fondamentali come la regola dei terzi. Queste composizioni sì spettacolari, ma che non riescono a focalizzare l’attenzione dello spettatore sul soggetto, rimangono uno sterile autoerotismo visivo, che a essere onesti potrebbero al massimo regalare qualche bella immagine di copertina su Facebook.

Altro aspetto che mi ha fatto accapponare la pelle: la colonna sonora. Gran parte dei brani stridono con le ambientazioni e l’atmosfera del film, perché troppo moderne. Le sonorità indie, con quei bassi penetranti, non hanno nulla a che vedere con Recanati e con l’epoca in cui la storia si svolge. Non si fa uso, invece, di queste musicalità profonde nella scena in cui si contrappone il tono pacato che Giacomo usa rivolgendosi al padre con la rabbia che internamente lo divora. L’urlo di Germano suona distante, non essendo sostenuto da nulla se non dal silenzio, che lascia questo rancore risuonare nel vuoto. Un’idea, anche questa, potenzialmente buona ma mal realizzata. Lo stile ricercato che si voleva ottenere finisce per sfociare in una pomposità sterile, spesso inadeguata. Di Leopardi, quello vero, non rimane nulla.

A parte l’interpretazione del protagonista, dunque, non rimane molto altro di positivo da notare, se non alcune inquadrature in cui l’abile uso della messa a fuoco selettiva rende giustizia alla volontà di uno stile volto al bello. Mi stupisco dei tanti elogi ricevuti, ma probabilmente pecco di presunzione e invito – come se ce ne fosse bisogno – a non dare troppo peso alla mia opinione. Per un’ancor più lapidaria recensione, scevra dalla mia diplomazia e dai sensi di colpa che mi attanagliano, vi invito a visitare il blog partedeldiscorso.it nei prossimi giorni. Trema, Martone, l’esercito cinefilo sta arrivando.

Lucia Liberti

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