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L’insulto

Beirut dei nostri giorni: un capocantiere palestinese, nel corso di lavori stradali, offende un oltranzista cristiano. Dalle scuse non date, scaturisce un caso che dalla strada e dal Tribunale passa a rinfocolare le vecchie ruggini tra i Cristiano libanesi, da una parte; i rifugiati palestinesi, e le componenti musulmane del Libano, dall’altra.

Il regista Ziad Doueiri, libanese, ma formatosi professionalmente in Usa, è di formazione sunnita, quindi tendenzialmente filo-palestinese. Ed è anche sceneggiatore del film, insieme a Joelle Touma, che ha spesso lavorato col regista, e che invece è di cultura cristiana falangista: ovvero le due grandi componenti della società libanese che si scontrarono dal 75 al 90, in una sanguinosa guerra civile. Guerra che si chiuse senza né vinti né vincitori: ma con distruzioni e lutti. Il regista ha affermato che l’amnistia successiva alla fine della guerra è diventata una specie di “amnesia collettiva”, perché i problemi non sono stati affrontati; e ognuno è rimasto arroccato sulle proprie posizioni. Il film (LIB-FRAN-BEL-CIPR, 17) affronta questa problematica adottando un punto di vista, di fatto rivoluzionario, perché si fonda sull’esigenza della riconciliazione. Non vi potrà mai essere pace duratura se non ci si pone su tale percorso, che accetti e legittimi anche le ragioni e l’esistenza dell’”altro”. Esperienze contemporanee di fasi postbelliche (nella ex Jugoslavia, in Bosnia in particolare, ad esempio), ci dicono che tentare questa strada che ha elementi di utopia e di visionarietà, è estremamente arduo, culturalmente e politicamente complesso, e deve anche aver bisogno di sofisticate strategie. C’è una frase detta dell’avvocato, filo falangista, il bravo attore Camille Salameh, molto noto come attore comico in Libano in tv e a teatro, ma che comunque è giusta, che suona: ”Non esiste un diritto di primogenitura nella sofferenza per cui si sia  giustificati nell’infliggerla agli altri”, perché anch’essi, molto probabilmente, hanno subito torti e lutti. Infatti è lui che riporta alla memoria storica, “Il massacro di Damur”, operato nel 20 gennaio del 76 contro la popolazione inerme, per lo più cristiana di quella cittadina sul mare: più di 500 le vittime. Esso avvenne in risposta a quello del Campo di Qarantina a Beirut, di qualche giorno prima, dove perirono massacrati più di 1300 civili musulmani per lo più palestinesi, curdi, ad opera di Milizie Cristiano-maronite. Inoltre, anche se l’avvocato appare un po’ ambiguo, perché sembra avere un occhio rivolto al passato, il suo operato è sempre all’interno della formalità legale: anzi è da notare che la sceneggiatura è attentissima a non far diventare la parte ambientata nel Tribunale uno scontato scontro di odio tra fazioni, bensì tra punti di vista culturali e politici. E difatti, la figlia dello stesso avvocato, anch’essa giurista, difende il palestinese: è evidente la metafora di uno scontro decisamente intestino anche a quei segmenti di società orientati maggioritariamente in un certo modo. L’attrice e intellettuale libanese Diamand Bou Abboud che l’interpreta, è molto brava: ha quel senso di finta fragilità che nasconde grinta, intelligenza e sensibilità. Però la riuscita del film, a fronte dell’assai intricata vicenda libanese (di cui ho dato qualche passaggio documentario, sia pur parziale), è che nel mentre la tiene presente, non se ne fa travolgere. Sia tematicamente che, soprattutto, stilisticamente. Da un piccolo episodio trascurabile, come il “Michael Kolhaas” di H. Von Kleist, anche se con esiti fortunatamente diversi, gli autori ribaltano i luoghi comuni sull’attuale situazione in Libano. E’ stata necessaria un’ufficiale dichiarazione, riportata nei titoli di testa, sul fatto che il film non intende attaccare il governo in carica. Ma si pone su una più ampia prospettiva di respiro storico. Che parte dalle microstorie dei due protagonisti. Essi sono persone comuni, ognuna col suo carico di passate esperienze e sofferenze. Dei due è forse il più anziano, il palestinese che pronuncia l’offesa, paradossalmente, il più equilibrato: ma non resiste a quella che reputa un’offesa gravissima da parte del cristiano maronita; e s’incaponisce e resiste. L’attore palestinese Kamel El Basha, Coppa Volpi a Venezia 17, molto noto in teatro, lo tratteggia con una sofferta umanità: egli diventa, come Toni il cristiano, esterrefatto del chiasso attorno alla vicenda. Anche Toni, l’attore libanese Adel Karam, pur partendo da una furia risalente al fatto di essere un sopravvissuto alla strage di Damur, ha molte sfaccettature: nonostante tutto, nel perdurare della diatriba, coglie e a suo modo rispetta l’umanità del suo interlocutore/concorrente. C’è il momento, assai intenso in cui, forse grazie al confronto col palestinese, il cristiano finalmente ha il coraggio di ripercorre con lucidità i momenti della strage, come memoria del passato, ma solo per celebrali nel lutto e nel loro superamento, non nell’odio. Come anche quando aiuta il palestinese, in panne con l’auto, una situazione di sceneggiatura assai raffinata, che è risolta con un’interpretazione dei due leggera e perfino ironica, da manuale. Così avviene col palestinese che va da solo all’officina per farsi “ridare” il pugno dall’altro -e mettersi in paro-, un altro valido spunto di sceneggiatura, risolto nella stessa qualità di gestualità. Sono momenti narrativi di grande felicità ed efficacia. Il film incanta e non stanca: ha vinto diversi premi in giro per il mondo. Esso è anche sviluppato con “astuzia” hollywoodiana: il regista è stato aiuto di Quentin Tarantino. La parte del processo è orchestrata come un riuscito “Court Room Drama” (un film di aula giudiziaria), come nella migliore tradizione USA: serve a meglio far uscire la forza drammatica del conflitto storico, isolandone gli aspetti faziosi, sviluppandone i momenti d’interesse tematico da lui perseguiti. E anche, attraverso i suoi colpi di scena, abilmente orchestrati, a tener desta la nostra attenzione: e ciò grazie al montaggio di Dominique Marcombe, professionista attivo in Francia. Così anche la fotografia di Tommaso Fiorilli, che, per quanto di origine italiana, è da tempo validamente attivo nel cinema e nelle Tv Series francesi di qualità, esprime quell’atmosfera urbana sincopata di una Beirut viva e immersa nella vita di una metropoli così ricca di contraddizioni. Un ultimo accenno alla forza e ricchezza espressiva dei ruoli femminili: il primo è già stato citato; un altro è quello della moglie di Toni: l’attrice libanese Rita Haiek. Nu’ piezz’e’femm’n’ di grande fascino, popolare stella nel mondo arabo tra cinema, tv e spettacolo, si mostra bella, indomita, ma anche sensibile e rassicurante, nel suo contrapporsi alla chiusa rigidità ideologica del marito. Christine Choueiri, altra attrice libanese di successo, è la partecipe e solidale compagna del capomastro palestinese.   

 

Francesco Capozzi

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