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Le Ardenne. Oltre i confini dell’amore

Belgio, parte fiamminga (Anversa). Dave, preso dopo una rapina andata a male, si fa quattro anni di gabbio: ma non denuncia i suoi complici: la fidanzata e il fratello. Uscito, si scontra con una realtà del tutto trasformata, nelle persone e negli affetti. Solitamente, quando si parla di cinematografia belga, si pensa subito ai fratelli Dardenne e, in generale, alla parte francofona (la Vallonie). Ma esistono anche le Fiandre, zona dove si parla il fiammingo, lingua più affine all’olandese. Regione che ha una sua tv, una sua indipendente e consapevole cultura, compresa quella dell’immagine. E un suo cinema: e questo film (BELG, 15) ne fa parte. Prodotto interamente con capitali belgi, non ha alcun contributo di produttori francesi: che invece sono molto presenti in quello vallone. Scampolo di fine stagione, timidamente approdato sui nostri schermi, dopo essere stato inviato dal Belgio agli Oscar 17 come Miglior Film Straniero, non è per niente aiutato da questo titolo bislacco, incomprensibile e pretenzioso. Oh, l’hanno combinato (si vede che è stato “ponzato”…) apposta per scoraggiare ogni eventuale spettatore! Anche perché il titolo originale, “D’Ardennen”, è una specie di ossimoro: le Ardenne sono nella zona vallone, ma la traduzione è fiamminga. Il regista e sceneggiatore è Robin Pront, un autore dotato di una sua personalità, lì noto anche a livello di social, e attivo nella tv e nel cinema fiammingo, anche se questo è il suo primo lungometraggio. Jeroen Perceval, che ne è cosceneggiatore, vi è anche interprete: ricopre il ruolo chiave del fratello Kenneth. E’ un film espressivamente duro: ed è un complimento. E’ fatto bene. Nel senso che tiene in piedi diversi e convergenti piani narrativi: ogni personaggio ha una sua “storia” personale. Che si trasforma in traiettoria comportamentale che viene individuata, motivata nei suoi cambiamenti e seguita con cura, pur se all’interno di una forte unità narrativa. Che è rappresentata dalla follia di Dave, il motore dell’intera vicenda. Interpretato dall’attore fiammingo David Janssen, che è di presenza molto macha, forte ed effervescente. Apparentemente deciso e risoluto è solo un groviglio di pura energia distruttiva. E’ in realtà un personaggio che non pone limiti alle sue ossessioni: quella più sbandierata è il suo strano concetto di famiglia; che però significa solo il possesso delle persone a lui legate: non ne accetta l’autonomia o l’indipendenza: E’ affettivamente loro legato, perché ne vuole disporre il destino: e lo è solo in questa misura; il suo codice prevede la distruzione a chi fuoresce da questo perimetro: ed è lui, solo lui, che la vuole comminare, come un dio selvaggio, astuto e crudele; rancoroso e vendicativo. Che non conosce limiti o ascolta ragioni diverse da quelle del suo io. E’ come se non fosse mai cresciuto. Cui fa da degno e (narrativamente) armonico pendant il suo ex compagno di cella Stef: ancora più folle, nonostante, anzi reso ancora più stridente e inquietante dalle apparenze di pacatezza e di razionalità del suo modo di porsi e del suo fare. A renderlo così incisivo è l’attore fiammingo, esperto e maturo, e anche visivamente piuttosto carismatico, Jan Bijvoet: la sua gestualità è minimale, ma densa e assolutamente precisa. Lui e il suo compagno gay (l’attore Sam Louwyck) sono immersi in quella tetra atmosfera invernale dei boschi delle Ardenne. Che non solo investe la dimensione naturale, ma anche quella della comunità lì vivente, in quella solitudine rozza, intollerante, chiusa, arretrata e diffidente, resa con pochi ma assai puntuali ed eloquenti tratti: tutto ciò ricorda il classico “Un tranquillo weekend di paura” (72) del maestro John Boorman. In questo notturno scenario naturale convergono e precipitano gli eventi narrati in città. Che però non si limitano ad esservi meramente “incorniciati”, in maniera insolita e visivamente molto convincente e assorbente. Assistiamo al disporsi di quelli in una sequenza logica e necessaria di eventi, da cui scaturiscono gli effetti del finale, che non poteva non essere raffigurato in quei boschi minacciosi e solitari. Essi sono la proiezione inconscia del loro vivere. Nel film sono citate le Ardenne come lo sfondo utopico della loro felice infanzia, ovviamente una dimensione onirica, ingannevole e volatile come i ricordi. Ma che ora si è trasformata in una selva oscura, pericolosa e remota, piena di orchi e tremende minacce. E tale stato è fortemente caratterizzato anche grazie alla musica, che suggerisce il senso dei grandi spazi aperti: ma anche la loro pericolosità. Ed è questa la raffinata intuizione di sceneggiatura che sviluppa e trasforma in modi psicologici l’assetto figurativo del film, portandolo a quel diapason di intensa e incontrollata, se non febbrile drammaticità. Ma anche i precedenti risguardi metropolitani, visivamente non sono altro che dei precordi preparatori, anche se lontani fisicamente, di quei boschi. Questa contiguità metaforico-narrativa si fonda evidentemente sulla qualità davvero notevole della fotografia, il cui direttore Robrecht Heyvaert , dà un tono uniforme alle diverse dimensioni ambientative, anche di interni. In patria è noto per passare con flessibile e sicura professionalità e riconosciuta qualità artistica, dalla sperimentalità degli shorts movies (i corti) e delle serie tv al cinema main stream. Di analoga qualità è stata l’opera del montatore, Alain Dessauvage, pluripremiato in patria, e di elevato livello di ricchezza e duttilità nell’esperienza professionale. Insieme hanno reso fluido lo scorrere del film: senza intoppi di enfasi inutili e “gridate”, hanno dato forma e spazio ai vari grumi di drammaticità inerenti ai personaggi. Il più complesso e forte, e il meglio articolato, è quello della ragazza, interpretata da un’incisiva, nervosa, intensa e convincente Veerle Baetens; quasi quarantenne è una presenza nota nello spettacolo belga anche per il suo riconosciuto e premiato talento di cantante e di attrice teatrale. Il suo è il personaggio che con la maggiore consapevolezza possibile ha meglio degli altri attraversato, all’interno di un sofferto percorso, il deserto dell’insignificanza, che la vita coll’ossessivo Dave aveva comportato. In questo è il meglio rifinito psicologicamente, come osserviamo fin dalle prime forti sequenze nel gruppo di selfhelp.

 

Francesco Capozzi

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